Una possibile postfazione di Giuseppe Mastromarino a STORIE DALLA “TERRA DELL’OSSO” di Angelo V. Colangelo
L’amico Angelo Colangelo ha avuto l’amabilità di inviarmi la “possibile postfazione” di Giuseppe Matromarino alle sue storie dalla “Terra dell’Osso”, dopo averci presentato su questo blog le “Lettere di Giustino Fortunato a don Giovanni Minozzi e la nascita dell’Opera”, (Giannatelli, Matera, 2020, € 16, pp. 158) del prof. Mastromarino come una preziosa tessera musiva, che va ad aggiungersi alle molte altre realizzate in precedenza attraverso una lunga, intensa e meritoria attività di studio e di ricerca. Egli – scriveva Colangelo – è andato così componendo nel corso degli anni un ideale mosaico del Mezzogiorno, di cui risaltano non solo gli eterni e irrisolti problemi, ma anche le potenziali risorse, troppo spesso sprecate o depredate, ma ancora, per fortuna, non del tutto dilapidate. Ora, appena finito di leggere quest’altra recensione del prof. Mastromarino, ricca di profonda cultura e cultura, sensibilità e spirito di amicizia, ho deciso senz’altro di pubblicarla immediatamente, scusandomi col professore e con Angelo per non averli preavvertiti.
TESTO DELLA “POSSIBILE POSTFAZIONE”
È risaputo che il nòstos, eterno ritorno delle stagioni della natura, ovvero metafora del viaggio del percorso esistenziale, è simbolicamente un archetipo dello spirito che ritroviamo in tutte le letterature e, in particolare, con il mito di Ulisse, immortalato nell’Odissea di Omero. Ancora oggi, in vari scrittori e nelle opere di speculazione filosofica e psicanalitica rimane un mito esistenziale, icona di quell’itinerario interiore alla ricerca della propria identità e delle proprie radici.
Nei racconti brevi, efficaci, leggibili di Angelo Vito Colangelo di “Le storie dalla terra dell’osso” vi è il filo conduttore della fabula realistica che non indugia a crogiolarsi sulla memoria romantica o nel riflusso compiacente in un passato scomparso, ma è vigorosa visione di ricordi che si confrontano con il presente. La dinamica passato-presente è dialogica, è un’interrogazione sugli avvenimenti, sul piccolo grande mondo dei paesi lucani con i significati reali e prospettici che, in definitiva, consentono una conoscenza veridica e profonda di un certo vissuto, inverato nell’interiorità dello spirito, ma anche come catarsi, liberazione interiore di quanto accumulato con l’esperienza di vita. Si tratta di ritornare sui propri passi per andare oltre, per conoscere meglio se stessi, i luoghi e le persone dei nostri incontri vitali, che danno senso alle nostre radici e, contemporaneamente, ci proiettano verso l’ignoto.
Il premio Nobel in letteratura, lo scrittore portoghese Josè Saramago nel libro “Viaggio in Portogallo” descriveva questa condizione umana: “il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia delle spiaggia e ha detto: ”Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito”.
Una delle poesie più significative di un poeta greco anticonvenzionale, Costantino Kavafis (1863-1933) è quella dedicata a Itaca, l’isola greca patria di Ulisse, inconfondibile metafora del nòstos e del viaggio esistenziale. In questa poesia del 1911 di Kavafis, l’ispirazione interiore del poeta si proietta alla ricerca della propria identità attraverso il ritorno e dopo un lungo viaggio nell’esplorazione di ciò che è in noi e fuori di noi.
Stigliano, il bel paese appoggiato sulla montagna materana, terra di origine di Angelo Vito Colangelo rappresenta non un approdo definitivo, ma una méta continua di un cammino a rébours che non potrà mai essere insignificante o deludente, ma diventa un bisogno, la chiave di volta di un’esperienza di vita, riguardata attraverso la via della mente e del cuore, per rivivere i segni, le ragioni, i valori, i dolori, le magie di una vita vissuta.
Quella Itaca di Kavafis richiama per sinallagma, pur nella concreta differenza ma identità di spirito, la Stigliano di Colangelo che, nonostante tutto, misteriosamente lo affascina e nello stesso tempo lo costringe a ripartire. Itaca per Kavafis e Stigliano per Colangelo sono un motivo forte e paradigmatico del viaggio e della conoscenza, motivo che si può ben leggere nella stessa poesia di Kavafis:
Sempre devi avere in mente Itaca-
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
E Angelo Colangelo sa molto bene ciò che Stigliano, con i paesi viciniori, vuole significare! Qui Colangelo, in questo duro crinale della terra dell’osso, ma anche di quella polpa incommensurabile che è la vegetazione boschiva della montagna materana, egli ha attinto una linfa di conoscenza degli ambienti e delle persone che costituisce l’antitesi alla solitudine e dove è possibile ritrovare il gusto, l’odore, i sapori antichi e gli inveterati stigmi della miseria e della povertà, ma anche i valori della solidarietà.
Per questo, Stigliano, Aliano, Cirigliano, Gorgoglione, Accettura restano paesi dell’anima, dove, nonostante tutto, si riesce ancora a respirare l’humus di un incanto ancestrale di perduta umanità e diventano un’oasi evocativa e significativa della propria “recherche”. A Stigliano, molti viaggiatori non ci sono più, anche le case sono spesso chiuse e abbandonate ed hanno cambiato aspetto, aggredite dal verderame e sembra, a volte, un paese ferito. Non vorrei essere chiamato in un fittizio duello, come avvenne tra Alfonso di Lamartine e Gabriele Pepe, per aver paragonato il poeta Lamartine, in una poesia del 1825, l’Italia alla “terra dei morti”, a “monumento crollato, abitato solo dall’eco! /Polvere del passato, sollevata da un vento sterile /Terra dove i figli non hanno più il sangue degli avi! /Dove, su un suolo invecchiato gli uomini nascono vecchi”. Nonostante che ciò non fosse vero allora, né oggi, è indubitabile che nella “terra dell’osso” l’emigrazione, l’abbandono per tante ragioni della propria terra, la mancanza di lavoro, l’indecorosa viabilità, il dissesto idrogeologico ecc., hanno reso dolorosamente queste terre un ospizio per anziani o, forse, il luogo dove, nel piccolo cimitero, vengono deposte, in un ultimo afflato, le spoglie di paesani emigrati che hanno espresso in vita il desiderio di riposare per sempre accanto ai loro avi.
Stigliano è per Colangelo il paese del continuo ritorno come per il poeta della raccolta “Myricae” (1891) nella poesia “Romagna”: “Sempre mi torna in cuore il mio paese” e, forse di più richiama, come ha notato il critico letterario Giovanni Caserta, il tema del ritorno al paese come necessità interiore, espresso nel romanzo ultimo di Cesare Pavese “La luna e i falò” (1950): “… Un paese ci vuole, non fosse altro che per il gusto di andarsene via,. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo”. Questo bisogno è insito nell’anima di Angelo Colangelo, vi è un’empatia continua con le sue vecchie piazze, con le vie, con i fantasmi delle persone che non ci sono più e che ancora parlano con l’eco delle loro voci, con le movenze dei loro atteggiamenti, con le icastiche espressioni dialettali, attraverso cui la narrazione assume in Colangelo i connotati di un realismo magico.
Tra i temi evocativi ricorrenti nella “fabula” realistica delle “Storie dalla terra dell’osso”, dal prologo all’epilogo, vi è quello del ritorno e del ricordo, afferenti alla terra d’origine. I paesi “dell’osso”, oggi, cioè della dorsale appenninica lucana non si contrappongono con i paesi “della polpa”, secondo la dicotomia visionaria dell’etnologo Manlio Rossi Doria, ma hanno una loro identità e potenzialità paesaggistica, di tradizioni e di vivibilità che rende quello che era uno squilibrio una opportuna integrazione di caratteristiche e di risorse, nonostante non manchino gli antichi problemi della deforestazione, del dissesto idrogeologico, della emigrazione intellettuale, della carenza di lavoro, dell’abbandono dei borghi.
Giovannino, immortalato nella famosa tela di Carlo Levi durante il suo confino ad Aliano tra fine 1935 e il 1936, rappresentato con la capretta Nennella, oggi, ormai anziano, con il carico della sua esperienza, mantiene viva la capacità di ricordare, accompagnata da “indecifrabili sospiri” che provocano attimi di sospensione tra un passato che parla e un presente muto che ascolta e, forse, non capisce. Il suo racconto non è nostalgia del passato, ma un presente del preterito e la figura del medico pittore torinese Carlo Levi si erge al di sopra dei muri alti e delle cancellate della solitudine in quel fotogramma indelebile in cui la creatività artistica si congiunge con la magia, la giovanile baldanza, la innocente e genuina curiosità dei bambini che ad uno ad uno si rivedono riprodotti, tal quali sono, nella misteriosa tela. Sono proprio i brandelli del passato che restano inamovibili nel cuore di quel Giovannino di ieri e di oggi nel cielo incantato dei ricordi e la sua narrazione diventa anche una “estatica contemplazione”.
Dopo Carlo Levi, appare un’altra figura di solitario, il poeta Giovanni Pascoli, le cui poesie sono state apprese a memoria da tante generazioni di studenti delle scuole elementari e medie. Tanti ricordano a mente brevi versi di poesie famose come “La cavallina storna”, “Valentino” “La nevicata”, “X Agosto”, “La quercia caduta” e quella nevicata del 1956 aleggia ancora nel ricordo di quelle persone che allora avevano dai 6 anni in poi. Durante una delle tante nevicate, il racconto di nonna Ippolita è impressionante e si riferisce a un ritrovamento di cadaveri a seguito del crollo della Chiesa. Oggi si tende ad oscurare il senso della morte e i cimiteri sono spazi extraterritoriali, dove la visita ai morti è un fatto rituale di una sola giornata.
Nella cultura contadina, come hanno dimostrato gli etnologi e in particolare per la nostra regione, Ernesto De Martino, vi era un rapporto magico tra i vivi e i morti, costruito attraverso i riti, le nenie, le tradizioni e tale relazione diveniva segno di civiltà e di memoria, una continua interrogazione esistenziale.
Cirigliano, il più piccolo borgo della provincia di Matera e lì, solo, paese dell’anima, che non vuole essere fagocitato dal “superiore”, nel senso che geograficamente si trova sopra, paese di Gorgoglione, né tantomeno dagli altri paesi viciniori come Stigliano e Accettura. In questo racconto vi è la parabola di un cambiamento umano, sociale e spirituale di Donato Gruosso, da brigante a vigilante, da penitente ad orante nella Santa Grotta di Cirigliano e, perfino, insegnante al servizio gratuito di tanti analfabeti per insegnare loro a leggere e a scrivere.
Nel racconto “Le statue della discordia”, il pomo della discordia deriva dalla contesa di due statue dei Sacri Cuori, a seguito di un ventilato diritto di proprietà e di possesso, avanzato da un prete della folta comunità sinodale dei preti stiglianesi, il quale non intendeva restituire le statue alla chiesa di provenienza, sostenendo l’inamovibilità del bene immobile. Questa tragicommedia ventennale trova, poi, la sua fine soltanto in ambito giuridico.
La storia personale di un reduce della Prima Guerra Mondiale, cioè di Salvatore, figlio di Giuseppe e Maria, s’innesta nel magma di una storia collettiva di coloro che non sono tornati, dei caduti, degli invalidi di guerra, di coloro che hanno subito traumi psichici permanenti. Salvatore è un fortunato, ma nel suo cuore non manca nessuna croce di quel ricordo. Il problema principale della sua famiglia umile e decorosa consiste nel dare una dote e un marito alla figlia Filomena. C’è una platea di gente che fa da cornice, i genitori, qualche bravo giovine, onesto lavoratore, i sensali che fanno le ambasciate e sembra che la protagonista Filomena non valga nulla e debba subire la volontà genitoriale. Ma Filomena è un tipo sveglio ed è anche bellina e non è insensibile alle attenzioni di un terzo incomodo, un potatore allegro ed esperto. Filomena rifiuta ogni proposta e finalmente il potatore, un certo Felice Sasanelli diventa suo marito. Sembra un matrimonio felice, interrotto dalla necessità di Felice di emigrare in America per lavoro. Filomena resta molto delusa, diventa una di quelle vedove bianche che popolarono città e paesi nel primo e nel secondo dopoguerra, a causa dell’emigrazione. Nacquero relazioni extraconiugali e figli illegittimi.
La storiella del capitolo 6, s’inquadra in una scena leviana del “Cristo si è fermato ad Eboli”, dove all’alterigia e prepotenza dei signori, pretenziosi di formale rispetto, si contrappone dapprima il silenzio e, quindi, un moto di ribellione dei contadini contro quel servilismo atavico che si manifestava con riverente inchino.
La razzia di guerra, in un contesto della Seconda guerra mondiale, si riveste di una vena umoristica e tragica, scaturita dalla fame dei giovani soldati tedeschi.
La filastrocca dei 12 mesi e la lauta cena post mortem, il cosiddetto “cònsolo”, sono racconti che sembrano derivare dalla fantasia di Giambattista Basile de’ “Lo cunto de’ li cunti” ed invero, sono realistici e la battuta finale in dialetto è paradigmatica per la soluzione dei lunghi digiuni, tanto da perorare, se fosse possibile, la morte della mamma almeno una volta al mese, in modo da poter riempire, con il “cònsolo”, adeguatamente, lo stomaco.
La storia di Vincent Santo è esemplare. È la storia dell’emigrazione verso le Americhe, attraverso la singolare storia di una famiglia di emigrati, attraverso cui si possono leggere gli aspetti positivi, ma anche quelli negativi (nostalgia, perdita della propria identità, sfruttamento ecc.) di quel fenomeno sociale studiato dai grandi meridionalisti.
L’ultima storia è autobiografica, è quella dell’emigrazione sociale ed intellettuale, presente più che mai, purtroppo, nella realtà meridionale. Il professore, alias Angelo Colangelo, per varie ragioni è stato costretto ad emigrare, ma il suo attaccamento alla terra d’origine, per la lontananza, è divenuto un dolce assillo, una condizione del suo spirito. I paesi dell’anima sono come uno stigma impresso in chi va via e, come dice un vecchio adagio latino “omnia mea mecum porto”. Pur nella lontananza, attraverso la scrittura, si può dire che egli è sempre presente a Stigliano, una specie di ubiquità tra Parma, Stigliano, Aliano e i paesi del circondario, che sono un richiamo continuo del vissuto di ieri e di oggi.
La “variatio” tematica tendente al bozzetto è funzionale alla lettura concisa e piacevole da parte del lettore, sempre più orientato al racconto breve. Ma tale sensazione non implica uno slegamento, perché dominano due principi unitari che sottendono a tutti i racconti: l’unità del clima narrativo del mondo descritto nelle caratteristiche di un paesaggio tipico della “terra dell’osso” e l’unità derivante dal semeion narrativo della scrittura fluida, attraente, piacevole che si esprime nella descrizione dei personaggi e nel sentimento di partecipazione al loro vissuto. A mio parere, l’unità stilistica evocativa dei sentimenti scaturisce dalla consonanza di Angelo Colangelo ai temi leviani, alla sua formazione classica e all’osservazione diretta delle maschere e dei volti che popolano quel mistero di luce e di dolore, di pazienza e di determinismo naturale e sociale di quel mondo quasi verghiano “dei vinti”. Ma, in fondo, il volume “Storie dalla terra dell’osso” è un invito a riconsiderare l’attuale condizione della realtà di questo territorio, per uscire dal retaggio del passato e sfruttare tutte le potenzialità per farla rivivere non certamente come una periferia abbandonata, ma come borghi popolati, attivi, vivibili, attraenti.
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