Rocco e i suoi fratelli di Eliana Di Caro
L’AMBIENTE E I PERSONAGGI LEGATI ALLA FIGURA DEL POLITICO E POETA RIEMERGONO CON FORZA DA UNA SELEZIONE DI IMMAGINI CHE RESTITUISCONO UN PEZZO DI STORIA, SOCIETÀ E CULTURA DEGLI ANNI CINQUANTA DEL ’900
Non solo lucani. Qui sopra, Rocco Scotellaro, secondo da sinistra, preceduto dal poeta di Montemurro (Pz) Leonardo Sinisgalli. Sotto, Scotellaro abbracciato da Giulio Einaudi
Ha già il piglio del sindaco. Lo sguardo serio e sicuro, le mani tenute in tasca in modo disinvolto, la sorella Serafina accanto tra il vigile e il protettivo, quasi a prefigurare che le ambizioni di Rocco, qui quindicenne, possano travolgerlo e sconvolgergli l’esistenza. C’è già tutto, dunque, in questa fotografia del 1938 contenuta nel libro Album di famiglia di Rocco Scotellaro, scelta dalla storica Carmela Biscaglia insieme a tante altre, ugualmente significative, nel corso di un lungo e puntuale lavoro d’archivio.
Immagini che ci restituiscono un pezzo di storia, una precisa realtà sociale, l’attenzione degli intellettuali italiani (e non solo) nei confronti di una terra emblema del profondo Sud a cavallo degli anni 40 e 50 del ’900. Immagini che sono un ottimo complemento al volume che riunisce Tutte le opere del poeta e politico lucano, pubblicato lo scorso anno da Mondadori (e recensito da Goffredo Fofi sulla «Domenica» del 23 giugno 2019).
Così ritroviamo il socialista Scotellaro, figlio di contadini, a Tricarico, mentre parla alla sua gente, persone che credono in lui e nella sua volontà di riscatto tanto da eleggerlo sindaco a 23 anni. Lo ascoltano con lo sguardo proteso, gli occhi attenti, l’aria mesta di chi fa una vita di fatica. Una scena cui si è ispirato Carlo Levi, legato a Scotellaro come un fratello maggiore, nello splendido dipinto Lucania 61.
Rocco ha la politica nel suo orizzonte e la poesia nel suo Dna, l’una sostanzia e corrobora l’altra, avvicinando l’autore ad alcuni protagonisti della cultura del tempo. Figure che compaiono nelle foto di queste pagine, come il già citato Levi, Adriano Olivetti, Leonardo Sinisgalli, Manlio Rossi-Doria, Tommaso Fiore, Gilberto Antonio Marselli, Alberto Carocci. In uno scatto molto intenso e pieno di verità, Giulio Einaudi avvolge in un abbraccio il giovane lucano. È l’aprile del 1950, l’esperienza di sindaco è stata interrotta brutalmente da un ingiusto arresto dovuto a oscure manovre degli oppositori politici. Eppure negli anni in cui ha guidato l’amministrazione, Scotellaro ha fatto costruire l’ospedale (il terzo della Basilicata), un edificio scolastico e una scuola per adulti, convinto che senza alfabetizzazione non ci possa essere emancipazione, ha lottato al fianco dei contadini per la conquista delle terre, un passaggio cruciale in quegli anni.
Saranno personalità come Levi, Rossi-Doria, Einaudi e altri ad aiutarlo a superare l’esperienza del carcere, 45 giorni che lasceranno il segno, durante i quali era andato avanti leggendo ai compagni di cella alcuni brani tratti da Cristo si è fermato a Eboli. È l’ora di Portici, dove Scotellaro studia all’Osservatorio di economia agraria. Lì viene colto da un infarto fatale il 15 dicembre 1953, a 30 anni.
A questo momento drammatico, alla commemorazione e alle successive iniziative per tenerne viva la memoria è dedicata l’ultima parte del libro: ci sono rare fotografie del defunto nella bara, che evocano i versi dedicatigli dalla poetessa Amelia Rosselli, al suo fianco in una delle immagini («Rocco morto/terra straniera, l’avete avvolto male/i vostri lenzuoli sono senza ricami/Lo dovevate fare, il merletto della gentilezza!»).
Fa un certo effetto vedere Carlo Levi in piedi su una sedia circondato dall’intero paese in piazza Garibaldi mentre pronuncia l’orazione funebre, sotto lo sguardo dolente di donne che osservano la scena da un balcone. Come osserva Francesco Faeta nell’introduzione, quelle donne ripiegate nel lutto, chine su loro stesse, ricordano la mamma di Scotellaro, Francesca Armento: «La terza da sinistra, fazzoletto o scialle scuro in testa, ha le mani portate al volto in un atteggiamento di pianto che tante volte ho visto nelle immagini realizzate da Franco Pinna per de Martino. Ricorda Armento, quella figura, ma non è lei; perché lei è prossima alla bara. Quel dettaglio, però, ci rinvia al cordoglio, nel suo significato originario di cum dolere (…) che profondamente connota la società rurale arcaica della Lucania».
Commovente la sequenza delle foto di Michele Gandin scattate per il primo anniversario della morte. Non si tratta solo di una massa di persone che si ritrovano per ricordare qualcuno. Si sente il silenzio di quei momenti, si percepisce il raccoglimento, si scorgono nei singoli volti lo smarrimento e la solitudine di chi non ha più un punto di riferimento, si legge la durezza del vivere. Per questo sono foto che raccontano più di quanto ritraggono, trasmettendo la sensazione di perdita che ha colpito quel mondo.
Proprio per cercare di limitare i danni di questa perdita, gli amici e gli intellettuali vicini a Scotellaro si impegneranno per pubblicarne i lavori, pur post mortem. A cominciare dalla raccolta di poesie È fatto giorno, cui seguiranno L’uva puttanella e Contadini del sud. Organizzeranno convegni e appuntamenti, come testimonia l’immagine con Franco Fortini per l’incontro a due anni di distanza da quel dicembre del ’53.
E lo studio di architettura Bppr (cioè degli architetti Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers) costruirà un monumento funebre semplice e sobrio per la tomba del poeta, sepolto accanto al padre Rocco Vincenzo e al fratello Nicola. Tra le ultime immagini ci sono quelle del 1960 in cui Francesca Armento, vestita e velata di nero, è proprio lì, rincantucciata accanto ai suoi cari.
Album di famiglia di Rocco Scotellaro – A cura di Carmela Biscaglia Con uno scritto di Francesco Faeta – Claudio Grenzi editore, Foggia, pagg. 144, € 18
TESTIMONIANZA DI UNO CHE SEGUI’ IL CORTEO FUNEBRE
Sono tra coloro che seguirono il corteo funebre di Rocco Scotellaro, che le fotografie non raccontano fedelmente. Ero con Antonio Albanese, il più caro amico tricaricese di Rocco e mio, che era con Rocco a Irsina per collaborare alla trascrizione di una intervista per Contadini del Sud quando Rocco ebbe la prima crisi del male che di lì a una settimana gli avrebbe troncato la vita. All’arrivo in piazza del corteo il portalettere consegnò una lettera ad Antonio. Era di Rocco. Conteneva due messaggi: uno per Antonio, scritto il 14 con un p.s. del 15, e l’altro per Francesca Armento, la madre di Rocco, scritto il 15, il giorno della sua morte. “Senza soldi” “E ho tanto bisogno di aiuto”, scrive ad Antonio; tranquillizza la madre. La lettera fu imbucata alle Poste Centrali di Napoli e il timbro segnava l’ora della morte di Rocco. Io e Antonio leggemmo i due messaggi, si può immaginare con quanta commozione. Il feretro, giunto intanto davanti al bar, che c’è ancora, prima della Cappella di San Pancrazio, fu fermato per l’orazione funebre. L’orazione la fece il prof. Manlio Rossi-Doria, non Carlo Levi. Il professore salì su una sedia o un tavolinetto (io e Antonio Albanese eravamo distanti una ventina di metri e la massa di gente ci impediva di distinguere), iniziò la sua orazione, scoppiando in un pianto dirotto: – Rocco, Rocco, Ah, Rocco! Lo chiamava tra i singulti, col tono di un rimprovero, come a dire: – Rocco, che hai fatto ?! Carlo Levi era lì. Chi gli era attorno voleva che fosse lui, ora, a fare l’orazione. Levi si rifiuta, la gente insiste; Levi sale sulla sedia o sul tavolinetto e cerca di spiegare: il funerale di Rocco non è una rappresentazione teatrale, che, se l’attore principale sta male, c’è il sostituto. L’orazione per Rocco, diceva Levi, l’aveva fatta il prof. Rossi-Doria col suo pianto. Uno scatto fotografico coglie il momento; la foto viene erroneamente interpretata e toglie a Rocco il conforto del pianto del suo amico e maestro. (a.m.)
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Significativa ed emozionante la tua personale testimonianza, Antonio. Ricordo che anche il compianto Gil, quando ci s’incontrava, andava spesso col ricordo a quell’evento funesto. Che, a distanza di molti anni, continuava a suscitare in lui una profonda commozione.
Una testimonianza netta e commovente.
Dal verso “Lo dovevate fare, il merletto della gentilezza!”, che mi colpì leggendolo la prima volta, sono passata alla scoperta di un minuto fa: il libro “Miss Rosselli” di Renzo Paris – Neri Pozza Editore. Molto interessante dall’anteprima su internet.
Caro Antonio,
condivido la tua puntualizzazione perché si é sempre detto che fu Carlo Levi a essere su quella sedia o su quel panchetto ed é anche l’immagine della fotografia, lo stesso angolo visuale che io ricordo ancora vivissimamente.
Quel giorno infatti noi ragazzi (avevo esattamente 8 anni, essendo nato il 18 dicembre del 45, e quindi facevo la terza elementare) non siamo andati a scuola o fui io a non andare, non credo tuttavia fosse stato dichiarato lutto cittadino perché certo mamma non mi avrebbe mandato in giro con la cartella e il grembiule nero con il fiocco bianco. Casa mia era nell’attuale via intitolata alla poetessa Laura Battista (ex via Gramsci) e per andare alla scuola elementare situata sul palazzo ducale dovevo scendere lungo il corso che all’imbocco della piazza era stracolmo di gente e non si poteva entrare, tanto che con altri ragazzi facemmo il giro da sotto il sopportico per andare a vedere che succedeva nella piazza e appena mi sono affacciato all’angolo ho visto l’uomo della fotografia sulla sedia o forse, come dici tu, su un tavolinetto verso lo spigolo della casa ad angolo che parlava di fronte a una piazza strapiena di gente, come se fosse un mare nero immobile in un grande silenzio. Proprio perché non si andava a scuola ricordo che con il mio coetaneo Antonio Cellini andammo a raggiungere il fratello Salvatore più grande di noi che invece di venire a scuola, il più delle volte andava a pascolare un paio di caprette sulla collinetta dove c’era e c’é il romantico pino mediterraneo, simile a quello ben più famoso che onorava in molte cartoline il panorama del golfo di Napoli, per intenderci dove fu realizzato il vecchio campo sportivo (il primo era lo spazio sterrato a Santa Maria, immortalato da una bella foto di Maraini). Sono sempre stato contento di sapere da te che Carlo Levi abbia detto che l’orazione funebre appropriata erano state le lacrime e i singhiozzi di Manlio Rossi Doria. Forse era anche opportuno che tu ricordassi ancora che il corteo funebre fu fermato al bivio dei Cappuccini dove l’avvocato Carbone tenne una sua concione, forse perché non erano bastate le lacrime e i singhiozzi e la tristezza dell’intero popolo, compreso quella di monsignor Delle nocche, nel ricordo di don Rocco Mazzarone.
Caro Mimmo, rileggo il tuo commento. Della “concione” ai Cappuccini io ho parlato e riferito dettagli,ma sono stato ignorato.
Buona domenica, Antonio