La piacevole compagnia di Rocco Scotellaro su una pagina del Sole 24 Ore
Sulla stessa pagina del supplemento DOMENICA del Sole 24 Ore dove è pubblicata la recensione di Eliana DI CARO all’Album di fotografie di Rocco Scotellaro, a destra, Giuseppe LUPO firma un articolo intitolato Memorie nascoste tra chiodi e bulloni, che sarà subito appresso riportato; in calce, Gaetano PECORA, citando un perfido pensiero di Ennio FLAIANO (Era bruttissima. Passò tre ore a truccarsi: divenne brutta) ricorda Gaetano Salvemini e il suo antigiolittiano Il ministro della malavita. Giuseppe Lupo ci dice che Leonardo Sinisgalli fu il primo a invocare l’uso di chiodi per rappresentare l’esercizio della scrittura e che qualcosa del genere capita di incontrare nel libro di Ernesto Franco, Vite senza fine, Einaudi, 1999, riedito a distanza di vent’anni, che gli valse il Premio Viareggio. La cerchia della compagnia di Rocco comprende ancora: Giulio Einaudi, Carlo Levi, Primo Levi, Adriano Olivetti, Amelia Rosselli
Giuseppe LUPO: Memorie nascoste tra chiodi e bulloni
È stato Leonardo Sinisgalli, nel secolo scorso, uno dei primi a invocare l’uso di chiodi e bulloni per rappresentare l’esercizio della scrittura: oggetti umili e dimenticati, spesso tenuti poco in considerazione per la loro scarsa visibilità nell’insieme di un mobilio, eppure così fondamentali per qualsiasi progetto di costruzione, dal semplice gioco del Meccano allo sforzo che induce a edificare grattacieli. Riportarli dalla periferia in cui noi tutti li releghiamo al centro di un’indagine letteraria non è soltanto una forma di riabilitazione, ma anche un riconoscere in essi la funzione di archetipo, quel posizionarsi a metà strada tra l’idea artigianale del fare e la sospensione del tempo, che cessa di essere cronaca e intende trasformarsi in memoria. Qualcosa del genere capita di incontrare nel libro di Ernesto Franco, Vite senza fine , riedito a distanza di vent’anni da quel 1999 in cui era stato pubblicato per la prima volta e che gli era valso il Premio Viareggio-Rèpaci. Di chiodi, viti e bulloni qui si narra a lungo e si racconta anche di bottoni, asole, cuciture, quasi ci fosse un misterioso legame fra questi articoli infinitamente piccoli, ma dotati di una sacrale dignità, reperibili nei negozi da ferramenta e nelle mercerie, e le sorti di un’epoca non così distante dalla nostra, che ha invocato il moderno, anzi lo ha strappato agli dei, come fa Prometeo con il fuoco, e lo ha costruito ricorrendo proprio alla forza di questi arnesi. Chiodi, nodi, bottoni servono a congiungere, non a dividere. Rispondono alla vocazione di tenere unite parti lontane, si prefiggono l’utopia del dialogo e non la disperata lacerazione del litigio. C’è un’idea di mondo in queste pagine: «Dicono che i nodi siano l’avanguardia di ogni chiodo». E quest’idea assume le fattezze di Gio Marasco: uomo leggendario e silenzioso, giardiniere, operaio d’arsenale, navigatore su piroscafi, manovale durante la costruzione di una ferrovia, fondatore di un esercizio commerciale, una vita spesa tra la Torino, dov’è nato, e la Genova, dov’è morto, passando attraverso il Sudamerica e l’Etiopia degli altipiani. Gio Marasco discende dall’albero genealogico di Tino Faussone, il protagonista della Chiave a stella di Primo Levi, anche se cronologicamente vive prima. Ed è un personaggio da assumere a specchio di un’epoca che fa del progresso il suo mito e rende gli uomini che ci credono dei connettori di storie, addizione di memorie a cui già solo il fastidio di un attrito può scatenare la mirabile invenzione della carta vetrata, come avviene a quel nobile polacco, Jan Potocki, la cui esistenza si lega a quel capolavoro intitolato Manoscritto trovato a Saragozza . Ecco perché Vite senza fine lo si può leggere a diversi livelli. Certo è una biografia sul fondatore di uno dei più importanti empori per la vendita di ferramenta. Ma questa definizione sta già stretta nel momento in cui viene pronunciata. Il libro è anche altro e questo altro lo apparenta al conte philosophique : un repertorio di passi perduti, un andirivieni tra situazioni ipotetiche e mai realizzate (l’amore per una donna che il protagonista vede in qualsiasi altra donna incontrata successivamente), un atto di omaggio al Novecento che ostinatamente ha creduto di offrire all’umanità le ragioni per cui sentirsi felice, salvo poi esigere pegno per un tempo che ha detto addio alla civiltà di ieri ma ha riempito di malinconia anche la più sperduta porzione di geografia. Malinconia per quel che non è stato, per quel che gli uomini hanno sperato ma non hanno ottenuto e al cui fondo rimane un senso di smarrimento. Quel tempo sospeso di cui Gio Marasco diventa emblema quando la sua vita, scrive Ernesto Franco, cerca di meritare lo «sforzo profetico di diventare un ricordo».
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