di MARIA PAOLA LANGERANO

Ognuno di loro si era lasciato alle spalle fotogrammi e rumori di una città.

Il ritmo pressoché monocorde dei giorni.

Per toccare un nuovo confine.

E si sarebbe trasformato nei colori e negli odori di quella terra che lo avrebbe accolto senza chiedere nulla in cambio.

Gina aveva deciso di sposarsi laggiù.

Tra la pianura e il mare.

Le case sono intagliate di luce e la gente ascolta i racconti delle canne del fiume.

Gina non sapeva se tutto questo fosse effettivamente vero.

Non le importava granché.

Aveva bisogno di antico.

Dissolvere in azzurro il vento tra le foglie, i vapori del mattino.

Campi, filari degli alberi, rive del fiume, distesa del mare.

Partirono dalle loro case lontane.

Senza conoscersi.

Verso Gina e il suo sposo.

Lei, causa involontaria di tutto ciò che sarebbe accaduto.

Quella mattina la porta della stanza si sarebbe spalancata sui mughetti.

Il sole avrebbe inondato il viso di Gina, bianca come l’aria.

Sergio si passò una mano sulla fronte.

Accese il motore del sidecar e prese posto sul traghetto.

Salì sul ponte. Quasi il tramonto.

Accese una sigaretta, diede una rapida occhiata alla banchina del porto.

Rimase assorto una buon mezz’ora.

Si sarebbe sposata l’indomani.

Gina, sempre spettinata.

Occhi vivaci, cerchi di luce.

Gli aveva preso la mano, un giorno, al limite del bosco.

Era giugno.

La scuola era finita e Gina trascorreva sempre un mese di vacanza tra i monti dove era nato suo padre.

Poi più nulla. Dieci anni.

Sergio la aspettava.

Aveva cambiato più di una motocicletta, trafficava tra gli ingranaggi della sua vita tranquilla.

Qualche volta aveva pensato allo sguardo di Gina bambina che aveva illuminato la vallata.

Domani sarebbe stato lui a condurla in sidecar davanti alla chiesa.

Io e Mac, quell’anno, non opponemmo alcuna resistenza all’estate.

Ci inghiottì all’improvviso.

Caricammo il bagaglio, Mac accese la moto.

Il contorno del viaggio disegnò la sua ombra sull’asfalto.

Sulla strada verso il porto.

La notte ci venne incontro sul mare.

L’alba si schiuse nel profumo intenso degli oleandri e del mirto che ci attendevano sulla costa.

La baia, il promontorio, l’isola e la luce del mattino.

I monti dell’interno, i boschi bruni, le venature rossastre della roccia.

Sughereti, ulivi, campi di grano.

I chilometri si piegavano docili alla nostra corsa.

Verde, argento, marrone, giallo.

Sotto il sole che arroventava la terra.

Amai ogni istante di quel nostro primo viaggio.

Colori e scorci, angoli dell’orizzonte che Mac catturava nel suo sguardo attento, socchiudendo gli occhi, tra le vampe che si levavano dall’asfalto.

Pomeriggio incandescente.

Il paesaggio si riposava dalla millenaria fatica degli ulivi.

Sereno, sorridente di campagna coltivata.

Non cercai che il mare oltre la strada, l’abbandono del corpo, le progressive profondità dell’acqua.

Mac fece entrare il vento dentro di sé.

Cercò la mia mano e la strinse.

Pianura liquida, brivido del canneto.

Sotto un salice ci buttammo alle spalle la linea retta dell’autostrada.

Qualche rara automobile interrompeva brusii, percorreva di brezza le foglie dei ficus.

Mac pensava alla pioggia sottile dei Pirenei, battito quasi invisibile che si era insinuato sotto la pelle colorata di mare.

Autunno fuori stagione.

 Scrutò le curve di quei monti lontani e le estati della mia adolescenza come un viaggiatore che cavalca un nuovo confine.

Di tutto quell’anno Eleonora non ricordava nient’altro che una luce tenue dietro tende fiorate, un materasso morbido, un letto alto, come quelli di tanto tempo fa.

E poi quel calore rosso che scorreva via, di bimbo sradicato.

Sotto le lenzuola immaginava l’aria che si respirava oltre il muro della clinica, sotto gli aceri del cortile.

Brezza di sera.

Dentro un lacerante squallore.

Mani che frugano nel tuo corpo e scompongono i sogni.

Amore macchiato di sangue.

Afrore nauseabondo di carne fatta a pezzi.

Si rannicchiò nel letto, stette qualche secondo immobile, distese a poco a poco le membra ancora addormentate.

In quella lentissima tensione dei muscoli, con gli occhi chiusi, sorrise al tepore del suo nido sicuro.

Dalle persiane di legno sottili strisce di luce.

Pulviscolo in mezzo ai contorni distinti degli oggetti.

La stanza avrebbe potuto trasformarsi in qualsiasi cosa.

Eleonora sarebbe volata al di là delle pareti, sopra le strade di tutti i giorni.

Vita nuova, d’un tratto, un amore diverso, riconosciuto tra mille.

Certe volte Eleonora non aveva nulla da dire.

Un rincorrersi di punti pieni e punti vuoti, ostinato pentagramma.

Eleonora studiava canto. Mezzosoprano.

Aveva una bella voce e si era innamorata di Bizet.

Incominciò a studiare canto e avrebbe voluto danzare.

Ma il fatto era che Eleonora cantava con un’anima da ballerina.

Paolo si incamminò in direzione del vicolo.

Era tardi, doveva tornare.

La luce fendeva la facciata della chiesa, ritagliava le sagome dei passanti d’estate.

Rumore del traffico sul corso, dietro la piazza.

I suoi pensieri gli arrestarono il passo.

Paolo diede una rapida occhiata all’imbocco del vicolo, si fermò alla fontanella sull’angolo, posò l’elegante cartella di cuoio, passò le mani sotto l’acqua fredda, le portò al viso e stette così, per qualche istante, a fermare le immagini che da qualche giorno si rincorrevano nella sua mente.

Era tardi, doveva affrettarsi, stringere mani, brillare, come sempre, rassicurante e deciso, pronto a scattare in avanti, a lasciare intendere, a smentire, primo e prima di tutti gli altri.

Sagace, insinuante, comprensivo, abile giocoliere di giochi inutili.

Il meccanismo si era inceppato.

La verità, compressa sotto le mani bagnate, si rivelava a lacerti, sotto traccia, guadagnava spazi tra le dita serrate contro il viso.

E Paolo capì.

Scuotendo il capo, asciugandosi nervosamente le mani sulla giacca, afferrando la cartella di cuoio, imboccando risolutamente il vicolo, nel tentativo di arginare con la fuga la piena del fiume che lo avrebbe travolto.

Sull’acciottolato il ritmo veloce dei suoi passi, il profilo della riunione con il segretario del partito, l’incontro con i giornalisti, le importanti novità di cui sarebbe stato, di lì a poco, il portavoce.

Il suo lavoro, l’identificazione perfetta con il ruolo che qualcuno gli aveva assegnato cominciarono a dilatarsi, gli si pararono di fronte, gli sbarrarono il passo.

Paolo guardò in alto, tra i cornicioni delle due file di case che disegnavano il vicolo.

Inghiottito dall’ombra.

Dietro di lui la piazza rideva, stordita di sole.

Mac avrebbe voluto partire.

Incominciare il suo viaggio.

Ci pensava sempre più di rado negli ultimi anni.

Conosceva a memoria le regole del gioco.

Conduceva il passare dei giorni al riparo da colpi di scena.

Con composta inquietudine percorreva da tempo lo stesso tornante.

Sapeva dominare la corsa.

Si guardava intorno, talvolta, e diventava paesaggio.

Riprendeva la strada, accelerava su istanti senza importanza, frenava davanti alle curve dell’orizzonte.

Poi tornava a casa, si sedeva sul divano, si accendeva un sigaro mentre la tenda abbassata attutiva il resto del mondo.

Allora, sottovoce, nella stanza che diventava musica, cominciava a parlare di quel viaggio, della linea tagliente di vento dentro il suo sguardo, del salto sul rettilineo senza confine, dei contorni di uno scorcio nella luce rossa di un bicchiere di vino.

Rivedeva ciò che aveva conosciuto, la terra, la roccia, l’acqua, i cieli di ogni sua tappa, le donne che aveva amato, gli occhi e le parole, risposte e silenzi.

Aveva viaggiato e si era fermato.

Partenze, soste, ritorni.

Si trovava in mezzo a fotografie di abbracci e di frasi d’amore, di visi di donna stampati sulla carta per ricordare tutto ciò che aveva preso e tutto ciò che aveva preferito lasciare.

E gli anni passati lo riconducevano sempre nello stesso punto.

Nell’istante in cui si era negato e aveva voltato le spalle, per ritornare indietro dove nessuno gli avrebbe potuto chiedere di ricominciare.

Scrutava i suoi gesti di allora, indugiava talvolta nella ricostruzione di una storia, si scrollava di dosso la cenere del sigaro insieme all’idea di quel viaggio che in cuor suo era convinto di non percorrere più.

Luce immobile di mezzogiorno.

Una sposa. Su un sidecar.

Capelli bruni, scorci di verde.

Dietro il gomito di un vicolo, si apre un giorno di festa.

Io e Mac, alle spalle una tappa consumata.

Tra la folla una giovane donna.        

E il suo passo, di musica, tra i panni leggeri.

Ninfa di bosco antico.

Eleonora.

Verso di lei Paolo muoverà i suoi giorni.

NOTA DI RABATANA

Romanza è un racconto di Maria Paola Langerano tratto da un suo libro – Il corpo incredulo, con prefazione di Elio Pecora – che parla di terra, dove sei personaggi incroceranno o intrecceranno le loro storie.

Corpo incredulo è il primo di tre libri pubblicati sul raffinato sito ufficiale di Maria Paola – https://www.mariapaolalangerano.it/ – di poesie raccontate o racconti poetici con un alto livello di squisitezza e perfezione-, che su quel sito  si possono ascoltare  cullati da delicate musiche. Romanza è il terzo racconto.

È questo – si legge nella prefazione di Elio Pecora – un apparato emotivo, incredulo, sospeso, che fluisce in forme sempre diverse, in una tensione impossibile verso un contorno, anche solo per un istante, definitivo.

La dimensione del reale, profilata nelle piccole cose di ogni giorno, attraversa immagini fugaci di quello che è stato, si distende nel sogno di qualcosa che, forse, può essere raggiunto nostro.

Questa avventura letteraria è stata ispirata dalle opere del ciclo “I vetri”, in cui la pittrice Antonella Cappuccio ha fatto confluire differenti esperienze espressive.

“Tema  dominante di questo aggirante diario è, prima ancora dell’ amore,  la condizione sospesa  dell’umano,  anzi   del terrestre.  Si  compie di  rigo  in  rigo  –   nella  misura  ora ampia, ora scorciata e pulsante del verso –   un viaggio nell’inquietudine e nel desiderio”

 

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