Per l’occasione le Edizioni Casagrande di Bellinzona pubblicano “Scegliere sempre la vita. La mia storia raccontata ai ragazzi”, libro testimonianza della senatrice (pagg. 80, € 12). Il libro contiene il discorso che Liliana Segre tenne all’Università della Svizzera Italiana (USI) di Lugano il 18 dicembre 2018, davanti a centinaia di ragazzi… «Non sono stata la farfalla trafitta, ma quella che vola oltre il filo spinato, perché ho sempre voluto vivere  fin dal primo giorno » disse quel giorno, incoraggiando i ragazzi a non essere indifferenti di fronte alla storia.

Un estratto dal libro,  che contiene la testimonianza della tragica esperienza  nel dicembre del 1943 della senatrice, di suo padre e di due cugini, è pubblicato sul supplemento culturale domenicale del Sole 24 Ore del 30 agosto 2020 ed  appresso riportato. In quell’occasione, il capo del Dipartimento dell’Educazione del Cantone, Manuele Bertoli, chiese pubblicamente scusa a Liliana Segre per il comportamento delle guardie di confine che l’8 dicembre del 1943 respinsero alla frontiera lei, suo padre e due cugini, che in Italia furono arrestati e poi deportati ad Auschwitz.

«I soldati ci scortarono senza dire una parola. Sicuramente sapevano già come sarebbe andata a finire a questo gruppetto di persone felici che piangeva di commozione per aver ottenuto la libertà. Attraversammo il paese di Arzo. Ricordo che erano le prime ore della mattina: passare il confine era molto pericoloso e noi ci eravamo alzati prestissimo. Nel tragitto incrociammo diverse persone, anche alcune donne che andavano a prendere il latte, ma nessuno faceva caso a noi. Nessuno ci guardava. Pensammo: «Che strano: passano di mattina quattro persone che non abitano in paese e sembra che nessuno le veda». Era come se queste persone ci volessero scansare senza dire una parola. Ci portarono immediatamente al comando di polizia di Arzo e rimanemmo ad aspettare in un corridoio. Nelle ore di attesa interminabile, vidi una serie di quadretti appesi alle pareti con le farfalle delle montagne svizzere: tutte le farfalle erano infilzate con uno spillo. Mi ricordo che non mi piacque per niente e che pensai: «Non è che sono anch’io una farfalla infilzata con lo spillo?». Quel pensiero lo scacciai subito, perché ero felice di essere lì. Quando finalmente fummo chiamati per essere ascoltati da un ufficiale, fu terribile. L’ufficiale svizzero-tedesco che ci aveva fatto aspettare ore senza offrirci nemmeno un bicchiere d’acqua e senza chiederci se volessimo qualcosa per scaldarci un po’ – era dicembre –, sentendo mio papà che raccontava della nostra fuga dall’Italia, disse: «Lei è un impostore. Lei è un impostore che non vuole fare il militare». Peccato che agli ebrei i fascisti avevano tolto anche il diritto di appartenere all’esercito, seppure decorati nella guerra precedente! A mio papà e a mio zio, che erano stati ufficiali nella Prima guerra mondiale, era stato restituito il tesserino di ufficiali in congedo, quindi mio papà non avrebbe potuto in nessun caso essere richiamato alle armi. A quanto pare l’ufficiale svizzero non era ben informato. Mio papà gli spiegò queste cose e aggiunse: «Mi scusi, ma le pare che se avessi avuto questa intenzione, avrei portato mia figlia di tredici anni, che è la gioia della mia vita, qui sulle montagne?». L’ufficiale rispose: «Questa è solo una ragazza sciocca: siccome in Italia c’è la guerra e qui la guerra non c’è, ha pensato bene di venire qui in villeggiatura». Con noi, come vi dicevo, c’erano anche i due anziani Ravenna – morirono presto tutti e due: uno si suicidò a San Vittore, quando fummo chiamati per la deportazione, e l’altro morì nel campo di concentramento di Fossoli per malattia e denutrizione. Indicandoli, mio padre disse: «Ma secondo lei perché́ questi due vecchi signori avrebbero affrontato la montagna d’inverno?». E l’ufficiale: «Queste persone rappresentano solo un fastidio per noi: sono vecchi da curare». Per tutta risposta i Ravenna gli dimostrarono di avere i mezzi per mantenersi. Anche noi avevamo dei soldi e mio padre incalzò l’ufficiale: «Guardi che io mi posso mantenere, posso mantenere me e la mia bambina!». «Ah, quindi viene qui a fare il signore!», ribatté l’altro. «Noi abbiamo bisogno di gente che lavora». A quel punto mio padre rispose: «Noi possiamo lavorare». Quell’ufficiale ci trattò con grande disprezzo. Quando capii che tutto era stato inutile, che i nostri sforzi e il dolore che avevamo provato nel lasciare la nostra casa non erano serviti a nulla, mi buttai per terra e, disperata, gli abbracciai le gambe: «La prego, la supplico! Ci faccia restare, non ci rimandi indietro! Ci uccidono!». Io non sono mai stata una che fa scenate, che piange disperata, ma in quel momento ero terrorizzata. Lui mi scacciò come si scaccia un cane. Gli davo fastidio. Ci fece andare via e tornare sui nostri passi, scortati da due guardie con la baionetta, che sghignazzando ci portarono più o meno dove eravamo arrivati qualche ora prima. Lì fummo arrestati dai finanzieri italiani in camicia nera, e io a tredici anni entrai da sola nel carcere di Varese.»

 

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