Ma nel cuore nessuna croce manca
di Angelo COLANGELO
Superata l’ultima curva dopo la “Galleria”, imboccò finalmente il rettifilo che costeggia il camposanto. Fatto ancora qualche centinaio di metri, si trovò di fronte il grappolo di case che, da mezza costa, si arrampicavano verso l’alto. Su, su, fino alla sommità della “Villa”. Ma lui intravide, o forse intuì solamente, una massa vaga e indistinta di muri, di tetti, di comignoli. Non riuscì a mettere a fuoco neppure il vicino “Casale” e, nel “Casale”, la sua casa. La vista era appannata dalla stanchezza. Il tratto del bosco di Accettura, percorso a piedi di notte, lo aveva distrutto. Per non dire che, man mano che si avvicinava alla meta, l’emozione era sempre più forte e impediva di avere una visione chiara e consapevole della realtà circostante.
Continuò a camminare e dopo un po’, percorso il ripido sentiero oltre la fontana, raggiunse finalmente le prime case del paese. Qui Carmela, già in faccende sull’uscio prima che si svegliassero Mastro Vincenzo, il marito, e i figli Antonio, Vito, Francesco e la piccola Angela, vide apparire una figura lercia, macilenta e stravolta dalla fatica. Irriconoscibile. Pensò che fosse uno zingaro o qualche malintenzionato e fu presa dallo spavento. Stava già per gridare, allarmata, quando fu raggiunta da una voce familiare e rassicurante: «Carmé, ccè nà mә kanùsc? Só jé, só Nәcólә…» (Carmela, non mi riconosci? Sono io, sono Nicola …).
Carmela lo riconobbe allora. Era il figlio di zia Rosa Santo. Di lui tutti da più di un mese, finita la maledetta guerra, chiedevano notizie, ma nessuno ne sapeva nulla. La donna lo invitò ad entrare. Intanto provvide a svegliare i suoi che ancora dormivano. E non mancò di chiamare ad alta voce, tutta agitata e commossa, la sua cara comare Teresina, la moglie del mugnaio Paolo Rotunno, che abitava di fronte, nella casa sopra il frantoio, che fungeva quasi da avamposto del Casale.
«Kәmmo Tarәsé, jé arrәvàtә Nәcólә, jé tәrnòtә sàn e sàlv da la guèrr … le fégghiә de zà Rósә lә Sànd» (Comare Teresina, è arrivato Nicola, è tornato sano e salvo dalla guerra … il figlio di zia Rosa Santo).
In breve tempo fu un susseguirsi frenetico di usci che si aprivano e di voci ancora assonnate che si accavallavano: chi domandava, chi rispondeva e in alcuni momenti le risposte anticipavano le domande. In quel frastuono improvviso, che aveva rotto d’un tratto il silenzio dell’alba, Nicola rifiutò l’invito di Carmela ad entrare e percorse, confuso, l’ultimo tratto della ripida salita di via Speranza, che conduceva a casa sua. Qui il tam tam miracoloso del vicinato l’aveva preceduto e sua madre era accorsa sul pianerottolo della lunga scala esterna, per capire cosa stesse mai succedendo.
Mamma Rosa aveva trascorso un’altra notte insonne. Tra sospiri e preghiere, come ormai faceva da molto tempo. Si può dire da cinque anni, cioè da quando Nicola era partito soldato. Affacciatasi, riconobbe il figlio che si avvicinava, benché il suo aspetto fosse mutato. Così mutato, da quando l’aveva visto l’ultima volta, da renderlo quasi irriconoscibile a tutti. Certo non a lei, non al suo cuore di madre. Riuscì a non farsi travolgere dall’emozione e accolse Nicola fra le sue braccia, in cima alla scala.
Calmatasi poi e asciugate due lacrime furtive che non era riuscita a trattenere, convinse il figlio a distendersi sul letto per riposare. Ebbe modo allora di ripensare al curioso sogno fatto all’alba, quando finalmente aveva trovato un po’ di requie e si era assopita.
[Nicola, ancora bambino, si era allontanato da casa ed era scomparso. Appena se ne accorse, lei, Rosa, incominciò a correre disperata e a chiedere notizie in tutto il vicinato. Ma nessuno ne sapeva nulla, nessuno quella mattina aveva visto il bambino. La paura era tanta, perché si temeva che Nicola fosse stato rapito da qualcuno degli zingari che in quel tempo frequentavano assiduamente la vicina spianata di Sant’Antonio.
Si era formato intanto un crocchio di donne che commentavano l’accaduto e si interrogavano sul da farsi, quando apparve Caterina, che con il suo asino arrivava dalla campagna. Questa, informata del fatto, raccontò che nel bosco aveva incontrato, circa due ore prima, il piccolo Nicola e gli aveva chiesto cosa facesse lì. Il bambino aveva risposto che era andato nel bosco in compagnia di molti altri ragazzi, alcuni più grandi di lui, che ad un certo punto erano scomparsi, lasciandolo da solo. Aveva allora provato davvero tanta paura e non sapeva cosa fare. Improvvisamente, per fortuna era comparso un uomo. Non molto alto, vestito da contadino. Per quanto si fosse sforzato, egli non era stato in grado di riconoscerlo. Allora l’uomo aveva detto:
«Nәcó, lә sàcc ka na mә kanùsc. Jé scéjәuә a la guèrr ka tó tәnìvә sòlә tré ànn. Cómә fàjә dә mә canòsc? Tә sé appauròtә? Ma mò non t’àja appauәrò. Só tàtt. Mó tә pòrt jé a la càsә».
(Nicola, lo so che non mi riconosci. Io andai in guerra quando tu avevi solo tre anni. Come fai a riconoscermi? Hai avuto paura? Ma ora non avere più paura. Sono tuo padre. Ora ti porto io a casa). Dopo aver detto queste parole rassicuranti, l’uomo si appartò in un angolo, in silenzio].
In realtà, Rosa non ne venne mai a conoscenza, ma Vito, suo marito, era scomparso il 17 settembre 1917, un lunedì, nell’incendio che durante una notte mite di fine estate si era sviluppata in una caverna situata nella dolina Aosta.
Erano cadute alcune granate e bombarde nemiche proprio davanti a uno degli ingressi della caverna e ben presto l’intera grotta era stata invasa dalle fiamme e dal fumo e resa inaccessibile dall’esterno. Tutti gli uomini della 5^ Compagnia del 216° Reggimento Fanteria che si trovavano all’interno, circa un centinaio di persone, rimasero intrappolati e morirono bruciati o asfissiati.
A Rosa qualche mese dopo era stato notificato ufficialmente, tramite il messo del Comune, che il marito risultava disperso e lei aveva messo un segno di croce su un foglio ad attestare che era stata informata dell’accaduto. Così era entrata a far parte del lungo e doloroso elenco delle vedove di guerra, mentre i suoi due bambini Nicola e Vincenzo, rispettivamente di cinque e due anni, si erano ritrovati da un momento all’altro orfani di padre.
[Mamma Rosa, nel sogno, rimase molto perplessa. Non capiva come potesse essere il marito, che era andato in guerra e non era più tornato, ad aiutare il bambino e ad accompagnarlo a casa.
Ma, a vincere i dubbi che tormentavano la povera donna, in sogno vi era stata un’altra improvvisa apparizione. Sorprendente, si direbbe quasi prodigiosa. Una donna bellissima si era accostata a lei e le aveva detto di stare tranquilla e di aver fiducia, perché il figlio era in buone mani: non sarebbe passato molto tempo e sarebbe tornato. Con la stessa velocità con cui era apparsa, dopo alcuni attimi la donna scomparve, lasciando dietro di sé una scia di luce sfolgorante].
Fu in quel preciso momento che il coro di voci esagitate provenienti dalla strada aveva interrotto di colpo il sogno di Rosa e l’aveva spinta a precipitarsi sul pianerottolo di casa. Si era ritrovata così, confusa e incredula, a salutare il ritorno del figlio.
Per alcuni giorni Nicola visse in un’atmosfera surreale. Era come trasognato. Stentava a convincersi che davvero fosse tornato dopo tante tribolazioni e che ora fosse al sicuro nella sua casa.
Nei giorni successivi, pian piano, riprese a frequentare anche il negozio che sua madre aveva comprato prima che lui fosse costretto a partire. Riprese, perciò, a lavorare e in questo modo si sforzava di tener lontani i cattivi ricordi, che ancora lo tormentavano.
Per scacciare gli incubi, che lo assediavano, riscoprì, come un tempo, il piacere della lettura.
Fin da bambino gli era piaciuto leggere. Dopo gli anni della scuola elementare aveva letto dei libri che gli erano stati prestati da un vecchio maestro elementare e da un buon sacerdote che abitava vicino a casa sua e gli voleva un gran bene. Da giovane non disdegnava poi, utilizzando qualche piccolo risparmio, di acquistare lui stesso qualche libro, che provvedeva a leggere avidamente. Era perciò orgoglioso, lui che aveva solo la licenza elementare, di conoscere, ad esempio, il libro “Cuore” di Edmondo De Amicis, “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, “I Promessi sposi” di Alessandro Manzoni, “I miserabili” di Victor Hugo.
Riprese così tra le mani vecchi libri che aveva gelosamente conservato e s’imbatté casualmente, sfogliando una sgualcita e malridotta antologia, in alcune poesie di Giuseppe Ungaretti. Le lesse e le rilesse più volte. Le imparò a memoria. Non riuscì più a staccarsene.
Era rimasto impressionato da alcune immagini folgoranti con cui il poeta aveva rappresentato la vita dei soldati in guerra, sempre sospesa al filo sottilissimo di una sorte capricciosa, oltre che cinica. Nessuno come lui poteva comprendere il senso profondo e tragico di quei versi:
Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro …; Ma nel cuore / nessuna croce manca; Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato …; Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie.
A Nicola capitava, comunque, in alcuni momenti della giornata, e soprattutto la sera prima di addormentarsi, di ripensare al recente viaggio di ritorno a casa. Era stata, come ognuno può immaginare, una vera e propria odissea.
La capitolazione della Germania nazista e la conseguente fine delle ostilità avvennero nei primi giorni di maggio 1945, mentre Nicola si trovava in un campo di concentramento nei pressi di Sarajevo. Era prigioniero dei titini, cui era stato consegnato un paio di mesi prima dai Russi. Agli inizi di luglio con una trentina di prigionieri italiani fu trasferito a Belgrado, dove tutti ricevettero un documento che aveva valore di passaporto, e di qui tradotti a Trieste su un treno merci formato da tanti vagoni scoperti.
Nella città giuliana, dopo essere stato sottoposto a disinfezione, fu autorizzato ad avvertire la famiglia della avvenuta liberazione. Impaziente corse a fare un telegramma, ma nell’ufficio postale ebbe l’amara sorpresa di non avere la somma necessaria per pagare il telegramma: costava dodici lire e ne aveva solo sei! Rimase senza parole e stava per andarsene sconsolato, quando, tra le persone che affollavano la Posta, si levò la voce di una donna che invitò l’impiegato a trasmettere il telegramma, perché avrebbe provveduto lei a pagare. Nicola, imbarazzato e commosso, chiese alla donna il suo nome per ringraziarla. Lei volle mantenere l’anonimato e molto semplicemente gli disse: “Non preoccuparti del mio nome. Non c’è bisogno di ringraziare. L’importante è che tu, dopo tanti mesi di sofferenza, possa far sapere alla tua famiglia, che è in ansia, di essere sano e salvo”.
Dopo aver fatto tappa a Udine, dove a ognuno fu assegnata una somma di 800 lire, iniziò l’avventuroso viaggio verso il Sud. Con mezzi spesso di fortuna o non di rado a piedi Nicola e i suoi compagni attraversarono un Paese ridotto in macerie: Bologna, Falconara, Ancona, Pescara furono le tappe successive dell’estenuante marcia verso casa, durante la quale si mostravano alla vista case e strade distrutte e rovine dappertutto, a causa dei violenti bombardamenti.
Non era difficile però capire che la guerra non aveva stravolto solo l’aspetto fisico dei luoghi, ma, peggio, aveva sconvolto l’anima delle persone. Lungo la strada o nelle campagne molti alla vista dei reduci si allontanavano o addirittura li maltrattavano, intimando loro di stare alla larga. C’era anche chi li scherniva, ritenendoli responsabili della sconfitta e della rovina del Paese. Non mancavano, per fortuna, persone che pietosamente li accoglievano in casa e si premuravano di rifocillarli.
Nicola, allora, non poté fare a meno di pensare che i danni prodotti dalla guerra erano materiali e spirituali e che nulla sarebbe stato più come prima. Ne ebbe ulteriore conferma, quando, nei pressi di Foggia, sistemati su un vagone carico di legname, inaspettatamente si videro chiedere il biglietto da un tizio in divisa di ferroviere. Era, in realtà, un falso ferroviere che tentava di imbrogliare quei poveri cristi disperati, cercando di spillare loro qualche soldo. Per fortuna, non tardarono a smascherarlo, costringendolo ad una fuga precipitosa non appena il treno si fermò in aperta campagna.
Giunti a Foggia di domenica e non essendoci alcun mezzo per Potenza, trovarono tutti ospitalità in una canonica, dove due buoni preti si presero cura di loro fino a quando, nel pomeriggio, riuscirono a trasferirsi a Barile su un treno che trasportava acqua. Di lì a piedi raggiunsero Rionero in Vulture, dove per caso s’imbatterono in una persona che Nicola conosceva, perché era il fratello di Pasquale Luppolo, un suo amico che viveva a Stigliano, dove si era trasferito dopo aver sposato una ragazza del posto. Il giorno dopo, finalmente, raggiunsero con una corriera Potenza. Era già passato oltre un mese da quando erano partiti da Trieste. Da Potenza i componenti del gruppo, che si era andato man mano assottigliando, presero ognuno la strada per il proprio paese.
Se nei giorni successivi al suo arrivo Nicola amava, soprattutto di sera prima di addormentarsi, ripercorrere mentalmente il lungo, difficile, ma tanto sospirato viaggio del ritorno a casa, rifuggiva invece dal pensare ai lunghi anni di guerra che tante sofferenze aveva portato a lui e a tanti milioni di persone. Se qualche pensiero al riguardo s’insinuava di soppiatto nella sua mente, si preoccupava subito di scacciarlo. Anche quando capitava che la madre gli ponesse qualche domanda, egli sviava immediatamente il discorso. Con gentilezza, ma con decisione.
Incominciò a parlare degli eventi che aveva vissuto nei cinque anni di guerra solo molto tardi, alcuni anni dopo. Lo faceva con l’amico fraterno Andrisani, che aveva vissuto esperienze simili alle sue, solo sotto cieli diversi. Nelle quotidiane conversazioni serali i due si raccontavano ormai con toni pacati anche i momenti e gli avvenimenti più drammatici. Impressionante era la loro capacità di ricordare date e nomi di luoghi, fatti, persone.
Nicola era stato chiamato alle armi presso il Distretto Militare di Potenza il venti marzo 1940. Aveva 27 anni.
Assegnato al 56° Reggimento Fanteria Marche, è destinato a Mestre. Dopo una breve permanenza in Trentino, gode di un congedo provvisorio dal 28 ottobre 1940 al 3 gennaio dell’anno successivo. Richiamato in servizio è assegnato per breve tempo alla caserma Sanguinetti di Venezia, prima di essere trasferito a Contursi nel mese di febbraio.
Nella settimana santa la sua Divisione s’imbarca a Bari per Durazzo e alla vigilia di Pasqua giunge a Scutari, dove partecipa ad alcuni combattimenti contro gli Slavi nelle vicinanze del campo di aviazione. Alla fine di aprile Nicola lascia l’Albania. Si trova in Jugoslavia, quando il 9 luglio del 1941 nel porticciolo di Metković, una cittadina ai confini tra Croazia e Bosnia-Erzegovina, s’imbarca per l’Italia.
Il giorno prima il tenente Dallari, che l’ha preso a benvolere fin dal primo momento, lo ha chiamato premurosamente in disparte e, sorvolando su tutte le formalità gerarchiche, con molto tatto gli ha detto:
– Colangelo, preparati, perché devi partire e andare a casa, appena possibile. Cerca di non allarmarti, ma devi partire.
Nicola istintivamente pensa subito che possa essere successa qualcosa alla madre. Benché non sia anziana, ha solo 47 anni, ha avuto qualche problema di salute da quando a 24 anni perse il marito in guerra. Soffre, perciò, di una grave forma di ipertensione. Non immagina assolutamente che possa essere accaduto altro, anche perché solo qualche giorno prima ha saputo che la moglie Angela sta portando avanti la gravidanza senza problemi. Per questo chiede, allarmato, al buon tenente:
– È successo qualcosa a mia madre?
– Non so, risponde evasivamente il superiore, nel telegramma non è detto nulla. Comunque, non allarmarti e pensa ad organizzarti per partire.
Pietosamente dall’ufficiale gli è stata nascosta la verità: il 3 luglio è morta sua moglie Angela. La straziante notizia a Nicola viene data qualche giorno dopo, quando, giunto a Campomaggiore, si reca a casa del cognato Giambattista Marchese. Qui è la cognata Pasqualina, che, vestita a lutto e tra le lacrime, lo informa della triste vicenda.
La permanenza a Stigliano, dove Nicola è giunto il 15 luglio, è, come si può facilmente immaginare, un vero calvario. Si sente stanco, vuoto, depresso. Ha l’impressione che il destino si sia accanito contro di lui da troppo tempo. Da quando, all’età di cinque anni, lo lasciò orfano di padre. Sempre la maledetta guerra, ora, non solo lo ha privato della gioia di vivere con la moglie il periodo dell’attesa del figlio, ma gli ha impedito di starle vicino nell’ora estrema in cui si è consumata, improvvisa e rapida, la tragedia. E non sembra ancora finita, perché tra poco dovrà ritornare a combattere.
Se ne riparte affranto, per Fiume, da dove, dopo una breve sosta a Spalato, raggiunge Ragusa, in croato Dubrovnik, una cittadina della Dalmazia. Inizia allora il lungo e doloroso girovagare per la Jugoslavia: Trebinic, Cattaro, Metkovic, Starigrad (o Cittavecchia), isola di Curzola, Knier. I frenetici spostamenti sono legati alle operazioni di guerra che vedono gli italiani impegnati in una dura e sanguinosa lotta contro i ribelli di Tito. La morte è sempre in agguato. Molti sono i caduti in combattimento: all’inizio del 1942 Nicola vede morire un suo intimo amico, il caporale Biagioni; a Cattaro viene ucciso Domenico Veneziano, un suo compaesano.
Come Dio vuole, si giunge al 1943. Dopo una breve permanenza in primavera a Stigliano, dove è stato mandato in licenza, Nicola rientra al reparto e si ritrova subito di nuovo immerso negli orrori della guerra. A Mortara, dove la sua Compagnia è stata inviata per dar manforte al battaglione comandato dal tenente-colonnello Cianci di Matera, la divisione “Murge”, giunta da poco dall’Italia, è completamente sterminata. Continuano così i combattimenti con alterne fortune, finché si giunge al fatidico mese di luglio.
La compagnia di Nicola si trova a Trebinic, quando viene data la notizia dell’arresto di Mussolini e della caduta del fascismo e nel porticciolo di Slano, quando, l’8 settembre, la radio annuncia che è stato firmato l’armistizio. L’esultanza è grande. Tutti ormai sono convinti che la fine della guerra è vicina. È il colonnello Cigliese, di Tricarico, a smorzare l’euforia e a riportare tutti alla dura realtà. Ai suoi soldati, infatti, con tono quasi paterno e non riuscendo a dissimulare una forte emozione, rivolge delle parole inattese, che hanno l’effetto di far svanire ogni entusiasmo.
« Ragazzi, – spiega sinteticamente – capisco il vostro stato d’animo e mi dispiace dover spegnere le vostre illusioni. Ma ho il dovere di dire quello che temo possa accadere. Spero di sbagliarmi, ma penso che non è ancora arrivato il momento di deporre le armi. Da questo momento bisognerà impugnarle contro un altro nemico, vale a dire contro coloro che finora sono stati i nostri alleati. Da loro sarà necessario ora difenderci!».
L’alto ufficiale lucano fu facile profeta. Mentre si trovavano a Ragusa, i Tedeschi diedero vita per via aerea ad una intensa azione di volantinaggio per invitare tutti i soldati italiani ad arrendersi e a fare ritorno in patria, per formare un fronte comune contro gli Alleati. Preso atto del loro rifiuto, i Tedeschi fecero un’azione di forza e il 10 settembre li fecero tutti prigionieri e li deportarono nel grande penitenziario di Zenica, dove molti furono sottoposti anche a gravi forme di tortura. Dopo circa un mese e mezzo li trasferirono prima a Graz, in Austria, poi nel campo di concentramento di Sarajevo e infine a Viscigrad, cittadina a cento chilometri dalla captale.
Qui, nella primavera del 1945, saranno liberati dai Russi, che li impegneranno nello sgombero delle macerie e nella riparazione del ponte di Mehmed Paša Sokolović sulla Drina. Di questo celebre storico ponte, infatti, a causa dei continui bombardamenti erano crollate ben cinque delle undici meravigliose arcate, che lo sorreggevano per la lunghezza di 180 metri. Solo alla fine di questi lavori, i soldati italiani furono consegnati ai titini, che li tennero prigionieri a Belgrado sino alla fine del conflitto.
L’inferno della guerra era durato cinque anni. Cinque interminabili anni, accompagnati da un lungo rosario di sofferenze indicibili. Lentamente, con il trascorrere del tempo, anche Nicola tornò a vivere in una sorta di normalità e riuscì a riscoprire le gioie della famiglia, dell’amicizia, dei rapporti umani, del lavoro onesto e dignitoso. Ma non poté e non volle mai dimenticare. Riaffioravano, pertanto, con insistenza nella sua memoria le immagini della drammatica esperienza, che aveva sconvolto i suoi anni giovanili, e ad esse si associavano le vive immagini poetiche lette per caso:
Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro / Di tanti che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto / Ma nel cuore / nessuna croce manca / È il mio cuore / il paese più straziato.
Aveva la strana sensazione che quei mirabili e dolenti versi dal Poeta fossero stati scritti proprio per lui.
Angelo Colangelo
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