PREMESSA

La presentazione su questo blog di un libro su Emilio Colombo edito a cura dell’Istituto Luigi Sturzo, a causa di incompresi inconvenienti, non è stata vista sui computer che l’hanno ricevuta con la mailinglist del blog . In ogni caso può essere opportuna la seguente premessa.

Il 9 dicembre del 2019, presso l’Istituto Luigi Sturzo, si è tenuto il Seminario di studi Emilio Colombo. Protagonista della storia italiana ed europea del Novecento. L’incontro si è svolto alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e sotto l’altro patrocinio del Parlamento europeo. Il Seminario ha inteso rendere omaggio alla figura di uno dei più importanti protagonisti della storia italiana, ed europea, del Novecento, offrendo un ricordo dell’attività da lui svolta sia a livello nazionale che internazionale. E dando conto del suo impegno come uomo del Sud, come statista e come europeista. L’incontro ha rappresentato, altresì, l’occasione per presentare l’archivio personale di Emilio Colombo, recentemente acquisito da parte dell’Istituto Sturzo, e per il cui riordinamento è stata, contestualmente all’evento, firmata una Convenzione con l’Istituto Universitario Europeo di Firenze (Archivi Storici del” Unione europea).Il libro riporta interventi che rappresentano la sistemazione, da parte degli autori, delle relazioni svolte in quella giornata, nonché un profilo biografico dell’autore.

UN RICORDO PERSONALE

Mi sia consentito un ricordo personale. Il prof. Varsori afferma (come si vedrà leggendo la sua sistemazione dell’intervento) che agli inizi il coinvolgimento di Emilio Colombo  nella politica estera italiana ebbe origine in maniera abbastanza singolare. Le compagini ministeriali guidate da Amintore Fanfani, destinate a preparare la formula politica del centro sinistra, si mostrarono particolarmente attive in campo internazionale, in una fase in cui la politica estera italiana cercò di imporre la presenza di una paese animato da uno spirito ottimistico in vari contesti. Alla fine del 1961, in una difficile situazione, si aprì a Bruxelles un negoziato che vide partecipare la delegazione inglese e quelle degli allora sei Stati membri della Cee. A guidare la delegazione italiana fu indicato il giovane Emilio Colombo. I negoziati si rivelarono difficili e complessi; Colombo si distinse subito per la capacità di mediazione e per l’attenzione nello studio di dossier tecnici si particolare complessità. In quel periodo, per ragioni di ufficio, mi capitò la straordinaria ventura di un incontro col conte Dino Grandi, uno dei maggiori esponenti del fascismo, presentatore al gran consiglio del fascismo dell’ordine del giorno che provocò la caduta di Mussolini e la fine del fascismo. L’incontro si sarebbe dovuto esaurire in pochi minuti e sarebbe dovuto avvenire non con lui ma con un addetto alla sua modernissima azienda agricola, che volle visitare persino il ministro della meccanizzazione agricola dell’Unione Sovietica. Fui invece ricevuto da lui stesso, che mi usò la straordinaria cortesia di trattenermi quasi l’intera mattinata. Persona gentile, molto disponibile, loquace e ironica mi accompagnò nella visita dell’azienda, illustrandomi ogni novità tecnologica che mi lasciava a bocca aperta. Saputo che sono lucano, mi parlò delle sua visite (non ufficiali) delle sue visite in Lucania e di Maratea e della Certos di Padula e ironicamente mi disse: – Ah! lucano. Voi avete Colombo, un democristiano nonostante che sia un fervente cattolico. E ciò nonostante e nonostante che sia molto giovane e ostacolato, un grande statista, uno dei pochissimi che può vantare il nostro Paese. Mi spiegò il momento politico in Italia e in Europa, gli incontri di Bruxelles agli inizi degli anni 60, e commentò: – Quando vado a Londra (dove Grandi era stato ambasciatore) i miei amici mi dicono: – Voi italiani siete proprio strani. Avete un uomo come Colombo e non lo fate ministro degli esteri! – Con questa apertura vinsi la mia timidezza e il mio ritegno e tentai di far scivolare la conversazione sulla seduta del gran consiglio che decretò la fine del fascismo. Sembrava che fosse disposto ad accontentarmi, ma naturalmente, con la sua consumata arte politica e diplomatica, pur non dandolo a vedere, non disse nulla che non si sapesse. Cosa non da poco, peraltro, visto che avevo la conferma del ministro degli esteri fascista e dell’ambasciatore del duce a Londra!

Profilo biografico di ANTONIO VARSORI

Professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università di Padova: è presidente della Società Italiana di Storia internazionale e membro della Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici  italiani del Ministero degli Affari esteri. È direttore della rivista «Ventunesimo secolo». Fra le sue più recenti pubblicazioni in volume tutte per la casa editrice il Mulino: L’Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti 1989-1992 (2013); Radioso maggio. Come l’Italia entrò in guerra (2015); Le relazioni internazionali dopo la guerra fredda 1989-2017 (2018); Mogadisio 1948. Un eccidio di italiani fra decolonizzazione e guerra fredda, con A. Urbano (2019^; Storia internazionale dal 1919 a oggi (2020).

Intervento del prof. Antonio VARSORI

Nato a Potenza nel 1920, Emilio Colombo, dopo la laurea in Giurisprudenza e un periodo di militanza nell’Azione cattolica, entrò ben presto a far parte del nuovo partito cattolico, la Democrazia cristiana; a soli 26 anni fu eletto all’Assemblea costituente e da quel momento sarebbe sempre stato membro del Parlamento fino alla nomina a senatore a vita. Durante la sua lunga carriera politica che attraversò tutta la cosiddetta Prima repubblica, Colombo ricopri una serie di importanti incarichi governativi: da ministro dell’Industria e Commercio a ministro del Tesoro, a responsabile del dicastero delle Finanze, a Presidente del Consiglio tra il 1970 e il 1972, infine a ministro degli Affari esteri in due diversi periodi – 1980-1983 e 1992-1993 [1]. Emilio Colombo svolse dunque a più riprese una parte significativa nella determinazione della politica estera italiana, divenendo noto soprattutto per il suo impegno nei confronti della costruzione europea, non solo quale conseguenza della sua presidenza del Parlamento di Strasburgo, ma soprattutto per l’iniziativa assunta in collaborazione con il ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher, nota come Atto Colombo-Genscher. Ciò nonostante, la sua azione di natura internazionale è relativamente poco studiata e le conoscenze restano in ampia misura superficiali, in particolare se si effettua un confronto con altre figure rappresentative della Dc negli anni della Prima repubblica, quali De Gasperi, Gronchi, Segni, Fanfani, Moro e Andreotti [2]. Fra le ragioni di tale limitato approfondimento circa l’attività politica di Emilio Colombo, in particolare in campo internazionale, va indicata la mancanza di fonti primarie italiane – una deficienza a cui dovrebbe ora porre rimedio il versamento del suo archivio privato presso l’Istituto Sturzo. È dunque prevalentemente su fonti indirette provenienti dagli archivi di altri paesi e dagli archivi comunitari che è, almeno in parte, possibile ricostruire la funzione avuta da Colombo nella determinazione della politica estera italiana. Obiettivo della presente breve relazione è appunto il tentativo di offrire qualche spunto su alcuni episodi  significativi dell’impegno del leader democristiano nel contesto internazionale.

Il coinvolgimento di Emilio Colombo nella politica estera italiana ebbe origine in maniera abbastanza singolare. Dopo essere stato sottosegretario, poi ministro dell’Agricoltura nel I governo Segni e nel governo Zoli, nonché del Commercio estero nel secondo governo Fanfani, passò poi a guidare il dicastero dell’Industria, Commercio e Artigianato nel secondo governo Segni, mantenendo questo ruolo nei successivi  gabinetti presieduti da Ferdinando Tambroni e Amintore Fanfani. Le compagini ministeriali guidate da Fanfani, destinate a preparare la nascita della formula politica del centro-sinistra, si dimostrarono particolarmente attive in campo internazionale, in una fase in cui la politica estera italiana cercò di imporre la presenza di un paese animato da uno spirito ottimistico quale esito della rapida crescita economica, in vari contesti: dal dialogo Est-Ovest, al rapporto con gli Stati Uniti, dal processo di decolonizzazione soprattutto nel Mediterraneo, alla costruzione europea.

Nell’ambito del processo di integrazione, dopo la fiirma dei Trattati di Roma, le neonate comunità, soprattutto la Cee, e i leader della cosiddetta Europa “dei sei” dovettero confrontarsi con l’arrivo al potere in Francia del generale de Gaulle e con la sua visione di una “Europa delle patrie” che confliggeva con i pur vaghi obiettivi di integrazione sovranazionale condivisi dai paesi del Benelux e dall’Italia, nonché, seppur in parte, dalla Germania di Adenauer. Tra il 1960 e il 1961 aveva avuto inizio il negoziato fra i “sei” intorno al progetto di “unione europea” avanzato da Parigi con il cosiddetto piano Fouchet[3]. Nell’estate del 1961 inoltre il governo conservatore britannico, presieduto da Harold Macmillan, aveva ufficialmente espresso l’intenzione di aderire alla Comunità economica europea. Si trattava di un cambiamento radicale nella posizione di Londra la quale in una prima fase si era dimostrata scettica, se non persino ostile verso il “rilancio dell”Europa” che aveva condotto alla firma dei Trattati di Roma. La candidatura inglese era vista con sospetto da Parigi, mentre a suo favore si era apertamente schierata l’Italia [4.]

L’atteggiamento di Roma era determinato soprattutto da ragioni politiche: la possibilità di contare su uno stato membro che bilanciasse le mire egemoniche di de Gaulle, il sostegno dell’amministrazione Kennedy alla scelta di Macmillan, i legami presenti con la Gran Bretagna nel quadro  dell’alleanza atlantica. Sebbene l’inclusione della Gran Bretagna rivestisse un’ovvia valenza politica, in prima battuta si ritenne che le trattative possedessero un carattere economico. Alla fine del 1961 si aprì dunque a Bruxelles un negoziato che vide partecipare, oltre ai rappresentanti della Commissione, la delegazione inglese e quelle dei sei Stati membri dellaCee. A guidare la rappresentanza italiana fu indicato il giovane Emilio Colombo – aveva allora quarantuno anni – nella sua funzione di ministro dell’Industria. I negoziati si rivelarono difficili e complessi per le eccessive richieste inglesi sul tema dei rapporti commerciali con i paesi terzi e per l’evidente diffidenza francese. Fu questa trattativa il primo banco di prova europeo per Colombo. Questi si distinse subito per le capacità di mediazione e per l’attenzione nello studio di dossier tecnici di particolare complessità. Nel corso del 1962, a dispetto di varie difficoltà, Colombo assumeva la presidenza della conferenza ed era in grado di raggiungere una serie di accordi di massima sulla questione relativa alla futura importazione di prodotti industriali provenienti da nazioni del Commonwealth e che, se la Gran Bretagna fosse entrata a far parte della Comunità, sarebbero stati sottoposti alla tariffa esterna comunitaria. Sebbene le trattative di Bruxelles finissero con l’arenarsi nel gennaio del 1963 a causa del veto francese alla candidatura britannica, l’immagine di Colombo ne uscì rafforzata e negli ambienti diplomatici comunitari egli si impose come un politico competente, in grado di trattare temi economici complessi, e come un abile negoziatore. Le sue posizioni vennero apprezzate dalle stesse autorità britanniche, come ebbe modo di affermare il capo della delegazione inglese alle trattative, Edward Heath, in una conversazione avuta con il Presidente del Consiglio Fanfani[5].

E’ probabile che l’esperienza maturata nel negoziato economico di Bruxelles fosse una delle ragioni della nomina di Colombo nel giugno del 1963 a ministro del Tesoro nel governo “balneare” presieduto da Giovanni Leone, una carica che Colombo avrebbe mantenuto in tutti i governi successivi (Moro I, II e III, Leone II, Rumor I, II, e Ill) sino all’estate del 1970. La dimensione internazionale di questo incarico fu rilevante e si basò anche su una stretta collaborazione instaurata con il governatore della Banca d’ Italia, Guido Carli. Questo aspetto dell’attività politica del leader democristiano è stato al centro dell’attenzione di Daniele Caviglia. Come è noto, Colombo è di solito ricordato per un suo intervento nel 1964 con il quale egli poneva in guardia il governo nei confronti delle difficoltà nate da una fase di rallentamento della crescita economica – la cosiddetta “congiuntura” -, un intervento che alcuni studiosi hanno inteso legare al tentativo di frenare la spinta “riformista” del centro-sinistra. In realtà è probabile che Colombo fosse soprattutto preoccupato dalle conseguenze sulla situazione economica italiana derivanti dai vincoli posti dalla Comunità europea; a questo proposito va ricordata la contemporanea missione in Italia del vicepresidente della Commissione europea, Robert Marjolin, le cui prese di posizione si affiancarono a quelle di Colombo e del governatore della Banca d’ Italia Carli, tanto è vero che alcuni storici hanno considerato questo episodio come un primo esempio dell’applicazione del concetto di “vincolo esterno”. É sempre in questi anni Colombo e Carli ebbero una parte di rilievo nei negoziati che coinvolsero i partner europei e gli Stati Uniti nei contesti della gestione del sistema monetario internazionale e del Kennedy Round. La valutazione positiva sia dei ministri economici europei, sia delle autorità americane intorno alla competenza e all’azione moderatrice di Colombo ne uscì ulteriormente confermata [6].

Il ruolo di Colombo non si limitò comunque alla gestione di questioni di natura prevalentemente tecnica. Tra la primavera e l’estate del 1965 si manifestò un netto contrasto fra la Francia e i cinque partner europei sui temi della Politica agricola comune (Pac) e delle competenze della Com- missione; tale divergenza condusse al ritiro da parte di Parigi dei propri rappresentanti a Bruxelles, dando così origine alla grave crisi detta della “sedia vuota”. La questione venne in una prima fase gestita per l’Italia dal ministro degli Esteri Fanfani, ma questi venne nel frattempo nominato presidente dell’Assemblea generale dell’Onu; durante la sua permanenza a New York egli fu vittima al Palazzo di Vetro di un banale incidente che lo costrinse per qualche tempo in ospedale. Il Presidente del Consiglio Moro decise dunque che fosse Colombo a occuparsi della crisi della “sedia vuota”. In occasione di una conferenza fra i rappresentanti svoltasi a Bruxelles il ministro del Tesoro ottenne soddisfazione su alcune richieste italiane circa la Pac; egli accettò inoltre la prospettiva di un incontro fra i rappresentanti dei “cinque” e quelli francesi senza la presenza della Commissione; era una concessione alle tesi di Parigi, che non incontrò il favore di Fanfani, ma venne sostenuta dal Presidente del Consiglio, il quale, come Colombo, propendeva per una soluzione di compromesso. In novembre la questione parve subire una battuta d’arresto proprio a causa dell’Italia perché la posizione di Fanfani venne scossa dapprima da una sua intervista all’«Espresso›› in cui egli era parso critico nei confronti della politica governativa circa il riconoscimento diplomatico della Cina, in seguito a un’intervista del sindaco fanfaniano di Firenze, La Pira, che rivelava un tentativo di mediazione italiana sulla guerra del Vietnam. Fanfani fu così costretto a dimettersi; nel frattempo Colombo in un incontro avuto in dicembre con il ministro degli Esteri francese Couve de Murville affermava come «[…] nessun governo fosse contrario [ad] applicare [il] trattato nella costante ricerca di una unanimità di consensi quando siano in discussione interessi fondamentali di una delle parti›› [7]. La formula di Colombo prefigurava in ampia misura il senso di quello che sarebbe divenuto il “compromesso del Lussemburgo”.

Il ministro del Tesoro partecipò, al posto di Fanfani, a un primo incontro nella capitale del granducato fra i ministri degli Esteri dei “sei”nel corso del quale egli agì da mediatore nel contrasto emerso tra la delegazione francese, da una parte, e quelle tedesca e olandese dall’altra. In quella sede si decise che i “sei” si sarebbero incontrati nuovamente da lì a poco, ma nel frattempo il governo Moro veniva battuto alle Camere sulla legge relativa relativa al finanziamento della scuola materna privata e si dimetteva; il Presidente del Consiglio chiedeva a dei partner europei fortemente perplessi di rinviare l’incontro comunitario. Furono le pressioni del Presidente della Repubblica Saragat e della diplomazia della Farnesina a far ricredere Moro che confermò la presenza della delegazione italiana, ancora una volta guidata da Colombo, alla riunione di Lussemburgo che avrebbe sancito il compromesso fondato sul cosiddetto “accordo sul disaccordo”, un concetto, come ricordato, che riprendeva quanto detto dal ministro del Tesoro nel colloquio con Couve de Murvilles.[8]

L’attenzione di Colombo nei confronti degli aspetti politici della costruzione europea risultò confermata anche successivamente. Nella primavera del 1966 Fanfani, ritornato alla guida del Ministero degli Esteri nel terzo governo Moro lanciava il progetto per una stretta cooperazione nel settore tecnologico nel quadro dell’Alleanza atlantica o in caso negativo con gli Stati Uniti su un piano bilaterale. Tale ipotesi veniva esaminata in ottobre in un incontro alla Farnesina, al quale prese parte anche Colombo, il quale sembrò invece puntare su un’iniziativa in ambito europeo, affermando che: «la questione è molto importante perché forse ciò che più conta non sono i risultati economici ma i risultati politici. Questo è uno deipoochi argomenti che abbiamo sul tavolo per fare un rilancio dell’ Europa››[9]

Egli suggeriva come gli ambiti scientifici da privilegiare fossero «il settore atomico, il settore spaziale, il settore elettronico››. Colombo concludeva come si dovesse prendere le mosse da un foro di collaborazione all’interno della Comunità europea, al quale avrebbe potuto aggregarsi la Gran Bretagna e come ciò dovesse costituire il “fulcro” dell’azione italiana. In realtà l’iniziativa non diede i risultati sperati e nel 1967 il governo finì con il concludere un accordo con l’amministrazione americana. Nell’agosto del 1970 con la crisi del terzo governo Rumor per la prima volta Emilio Colombo era chiamato a guidare un esecutivo ed egli sarebbe rimasto a Palazzo Chigi per circa un anno e mezzo fino agli inizi del 1972. Si trattò di un periodo diflìcile caratterizzato da profonde divisioni tra i partiti, da una forte conflittualità sociale e dall’avvio di serie difficoltà economiche, basti ricordare in proposito il noto articolo del giornalista americano Sulzberger, apparso nel gennaio del 1971, sugli “spaghetti in salsa cilena”. Colombo dovette concentrare la sua attenzione sulle questioni interne, lasciando le di politica estera ad Aldo Moro che era alla guida della Farnesina. Ciò nonostante Colombo nel corso del suo mandato come Presidente del Consiglio fu in parte investito di alcuni importanti temi connessi allo sviluppo del processo di integrazione che aveva fatto seguito al vertice dell ”Aja del dicembre del 1969 nel corso del quale erano stati individuati gli obiettivi dell’allargamento”, del “completamento” e dell’“approfondimento”[10].

Il governo presieduto dall’uomo politico lucano si impegnò in questi tre ambiti, puntando a una riforma della politica sociale europea, accettò la prospettiva di un primo esperimento di unione monetaria con la creazione del cosiddetto “serpente” e ribadì il suo sostegno all’ampliamento della Comunità a nuovi Stati, in particolare all’ingresso della Gran Bretagna. A questo proposito va ricordata la visita uflìciale compiuta da Colombo e da Moro a Londra nel giugno del 1971. Nel corso degli incontri avuti ai Chequers con il Primo ministro Heath, che Colombo conosceva dai tempi del negoziato di Bruxelles, l’esponente italiano confermava la volontà di Roma di favorire l’ingresso di Londra nella Cee, nonché la sua convinzione che grazie a questo allargamento la Comunità europea avrebbe potuto giocare un ruolo significativo sullo scenario internazionale [11]

L’impegno verso il progresso della costruzione europea, in particolare attraverso l’adesione dei paesi che avevano presentato la loro candidatura, ovvero la Danimarca, l’Irlanda e la Norvegia, oltre al Regno Unito, fu confermata dal governo presieduto da Colombo nella seconda metà del 1971 quando l’Italia ricoprì la funzione di presidente della Comunità;va ricordata ad esempio l’iniziativa per una riunione dei ministri degli Esteri dei “sei” allargata ai quattro colleghi dei paesi candidati, tenutasi a Bracciano agli inizi di novembre. Per quanto la conferenza non desse immediati esiti concreti, nel corso dei colloqui venne ribadito l’obiettivo dello sviluppo di una Cooperazione politica europea (Cpe), che sarebbe stata in effetti avviata negli anni immediatamente successivi[12]. Va comunque sottolineato come la politica europea del governo Colombo non fosse apprezzata da tutti i membri della comunità, in particolare dalla Francia che considerava la posizione italiana verso la candidatura inglese troppo ottimistica e semplicistica [13]. Inoltre in due memorandum del Ministero degli Esteri francese del gennaio 1971 si sottolineava come a giudizio di Parigi l’ Italia cercasse di conciliare due obiettivi che secondo il Quai d’Orsay erano in parte contraddittori: la realizzazione di una “politica estera” europea e la fedeltà all’alleanza con gli Stati Uniti. Né si mancava di indicare come l’europeismo dei governi italiani non risultasse poi coerente con il rispetto delle norme comunitarie [14].

Alla conclusione della sua esperienza quale Presidente del Consiglio, Colombo rivesti ulteriori incarichi ministeriali, fra cui quello di ministro delle Finanze nel quarto governo Rumor e ministro del Tesoro nel quarto governo Rumor, quindi nel quarto e nel quinto governo Moro; inoltre ricopri la carica di presidente del Parlamento europeo tra il 1977 e il 1979 sino alla vigilia delle prime elezioni a suffragio diretto dell’Assemblea di Strasburgo; al termine di questo mandato il suo impegno nel contesto comunitario venne riconosciuto con il conferimento del premio Carlo Magno. È interessante notare come nel 1976 in occasione della nomina di Roy Ienkins a presidente della Commissione europea, l’esponente inglese propose a Colombo la nomina a commissario, un invito che il leader democristiano declinò, forse preferendo mantenere una funzione politica di carattere nazionale.

Nel 1980 Colombo veniva nominato ministro degli Esteri nel governo guidato da Arnaldo Forlani e avrebbe mantenuto tale incarico per tre anni con i successivi gabinetti sotto la presidenza di Giovanni Spadolini e di Amintore Fanfani. Fu questa una fase particolarmente significativa per la politica estera italiana; Colombo dovette gestire questioni delicate quali il ritorno a un duro scontro fra l’Occidente e l’Unione Sovietica con il problema connesso all’installazione degli euromissili, la crisi libanese che vide la partecipazione alla forza multinazionale di pace a Beirut, le difficoltà connesse alla posizione italiana in occasione della guerra delle Falkland, per concludere con la stasi nella costruzione europea derivante dalla pregiudiziale posta dal governo di Margaret Thatcher circa il con-tributo britannico al bilancio comunitario.

Su questo importante periodo nell’azione politica di Colombo non esistono al momento studi specifici, ove si escluda un recente voltune di Giulia Bentivoglio sulle relazioni italo-britanniche tra il 1976 e il 1983 [15]; persino a proposito del noto Atto Colombo-Genscher ci si limita spesso a citarlo come esempio della volontà dell’uomo politico italiano di rilanciare l’integrazione politica europea e di avviare una collaborazione stretta in questo ambito fra l`Italia e la Repubblica Federale Tedesca, sebbene poi il governo di Bonn, con l’arrivo alla cancelleria di Helmut Kohl, avrebbe preferito rinnovare lo stretto rapporto di collaborazione con la Francia”[16]. Questa carenza di ricerche è – come è stato ricordato in precedenza – la conseguenza di una mancanza di fonti da parte italiana a cui si spera che ora possa supplire l’archivio di Emilio Colombo. È comunque possibile compiere in questa sede qualche cenno sulla base della documentazione archivistica inglese e francese disponibile e che chi scrive ha avuto modo di consultare nel quadro di un progetto di ricerca sul ruolo internazionale dell’Italia in età repubblicana. Quanto alla documentazione britannica, è interessante citare qualche brano delle note biografiche preparate dal Foreign office al momento della sua nomina a ministro degli Esteri:

Colombo is a devout Catholic. Unmarried, he is said to be a lay Franciscan who has taken a vow of celibacy. A handsome, highly intelligent and hard-working man with quiet sense of humour. He is a good speaker. Beneath his gentle exterior, he is a capable politician [. . .]. Colombo has been a good friend of Britain, which he has once visited… [17].

La fiducia inglese in Colombo parve confermata dalla vicenda delle Falkland; in più di un’occasione il Primo ministro inglese fece appello a Colombo, nonché al Presidente del Consiglio Spadolini, affinché l’Italia mantenesse le sanzioni decise dai paesi della Comunità europea nei con- fronti dell’Argentina [18]. Queste brevi note sull’azione di Emilio Colombo in campo internazionale confermano il rilievo del suo operato e intendono rappresentare uno stimolo a ulteriori ricerche che, anche sulla base della nuova docu- mentazione versata presso gli archivi dell’Istituto Sturzo, consentiranno di offrire un quadro più preciso, non solo circa la figura di Colombo, ma anche su momenti significativi della storia dell’Italia repubblicana.

NOTE

[1] Non esistono studi organici sull’attività politica di Emilio Colombo, ad ogni modo cfr. E. Colombo, Per l’Italia, per l’Europa. Conversazione con Arrigo Levi, il Mulino, Bologna 2013.


[2] Su Alcide De Gasperi cfr. P. Craveri, De Gasperi, il Mulino, Bologna 2006; su Giovan-ni Gronchi: A. Varsori, F. Mazzei (a cura di), Giovanni Gronchi e la politica estera italiana (1955-1962), Pacini, Pisa 2017; su Antonio Segni: S. Mura, Antonio Segni. La politica e le istituzioni, il Mulino, Bologna 2017; su Amintore Fanfani: A. Giovagnoli, L. Tosi (a cura di), Amintore Eanƒanì e la politica estera italiana, Marsilio, Venezia 2010; su Aldo Moro: G. Formigoni, Aldo Moro, il Mulino, Bologna 2016; su Giulio Andreotti: M. Barone, E. Di Nolfo (a cura di), Giulio Andreotti. L’uomo, il cattolico, lo statista, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010; M. Franco, Andreotti: La vita di un uomo politico. La storia di un’epoca,Mondadori, Milano 2010. Si citano solo alcuni fra i volumi esistenti.

[3] Su questa fase della costruzione ‘europea cfr. W. Loth, Building Europe. A History of European  Integration, W. De Gruyter, Berlin`2015, pp. 75-122.

[4]  Cfr. P. Ludlow, Dealing with Britain. The Six and the First UK Application to the EEC, Cambridge University Press, Cambridge 1997; W. Kaiser, Using Europe. Abusing the Europeans. Britain and European Integration 1945-63, Macmillan, Basingstoke 1996.

[5] Sul ruolo giocato da Emilio Colombo nel negoziato di Bruxelles e sulle valutazioni inglesi nei suoi confronti cfr. A. Varsori, ‘The Art of Mediation. Italy and Britains Attempt to join the EEC 1960-1963, in A. Deighton, A. Milward (a cura di), Widening, Deepening and Acceleration. The European Economic Community 1957-1963, Nomos, Baden-Baden, 1999, pp. 251-254.

[6] D. Caviglia, La diplomazia della lira. L”Italia ela crisi del sistema di Bretton Woods (1958-1973), Franco Angeli, Milano 2013.

[7] A. Varsori, La Cenerentola d’Europa? L’Italía e l’integrazione europea dal 1947 a oggi,Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 200-201. Cfr. inoltre Id., “The Economy First?” Italy and the Empty Chair Crisis (1965-66), in I.-M. Palayret, H. Wallace, P. Wimand (a cura di), Visions, Votes and Vetos. The Empty Chair Crisis and the Luxembourg Compromise Forty Years On, Pie-Peter Lang, Bruxelles-Berna 2006.

[8], Ivi, p. 201

[9]. Ivi, pp, 206-207

[10] Su questa fase del processo di integrazione cfr. M.E. Guasconi, L’Europa tra continuità e cambiamento. Il vertice dell’Aja del 1969 e il rilancio della costruzione europea, Polistampa, Firenze 2004.

[11] A. Varsori, La Cenerentola, cit., pp. 245-246. Sull”azione di Emilio Colombo in questo periodo cfr. anche Archivio della Presidenza della Repubblica, Uflìcio per gli Affari Diplomatici, busta n. 362, lettera Willy Brandt a Emilio Colombo, 11.5.1971; lettera  E. Colombo a G. Pompidou, 15.4.1971; lettera E. Colombo a M. Schumann, 15.4.1971; nonché busta n. 799.

[12 ] A. Varsori, La Cenerentola, cìt., p. 247.

[13] Archivi del Quai d›Orsay, Serie Europa 1971-1976, busta n. 193/QO/476, tel. n. 866-874, Burin des Roziers (Roma) al Quai d’Orsay, 30.3.1971, réservé.

[14] Archivi del Quai d”Orsay, Serie Europa 1971-1976, busta n. 193/Q0/476, Nota della Direzione Affari Politici, sotto direzione Europa Occidentale del Quai d’Orsay “L” Italie et la cooperation politique”, 19.1.1971 e Nota della Direzione degli Affari Economici e Finanziari, Servizio della Cooperazione Economica del Quai d’Orsay, “L” Italie et le Marché Commun”, 23.1.1971.

[15] G. Bentivoglio, The Two Sick Men of Europe? Britain and Italy between Crisis and Renaissance (1976-1983), Pie-Peter Lang, Bruxelles-Berna 2018.

[16] Ad ogni modo sull’Atto Colombo-Genscher cfr. H. Stark, Kohl, Dillemagne et l’Euro- pe. La politique d’intégratìon européenne de la République Fédérale 1982-1988, L’Harmattan, Paris 2004, pp. 32-42.

[17] The National Archives (Kew), Foreign Commonwealth Office 33/4434, FCO Briefing  “Visit by the Italian Foreign Minister”§ 27.5.1980.

[18] Bentivoglio, op.cit., pp. 191-192. Cfr. anche una serie di documenti reperibili nell’Archivio storico della Presidenza della Repubblica, Ufficio degli Affari diplomatici.

 

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