Giuseppe Lupo: Il coraggio di un brand tutto lucano
Il SOLE 24 ORE – DOMENICA – 4 ottobre 2020
A metà circa degli anni Sessanta, per reclamizzare il Cynar, fu inventato uno slogan che elogiava il potere protettivo di quel liquore a base di carciofo: “Contro il logorio della vita moderna…”. In pieno boom la modernità era considerata qualcosa di pericolosamente ostile tanto da richiedere l’intervento di un amaro le cui proprietà benefiche avevano la funzione di difesa, una specie di scudo “contro” i pericoli usuranti della civiltà delle macchine. Lo slogan indicava con molta chiarezza che tipo di giudizio e che valore venissero attribuiti ai fenomeni dell’industrializzazione, a tal punto diffusi da modificare radicalmente il profilo della nazione.
Una trentina di anni dopo, per pubblicizzare un altro digestivo, l’Amaro Lucano, viene inventato uno slogan destinato anch’esso a diventare chiave di lettura di una certa mentalità e di una certa epoca: “Cosa vuoi di più dalla vita?”.
La risposta ovviamente stava nel nome del liquore scritto in rosso, in cima all’etichetta della bottiglia, che si presentava con i crismi di un linguaggio fortemente radicato nei valori della tradizione: una giovane donna, in costume da pacchiana, regge un cesto pieno d’erbe, un’aquila in volo ha in bocca un cartiglio su cui è riportato il motto “Lavoro e Onestà”, alcune monete in bronzo testimoniano i numerosi riconoscimenti ottenuti da quel prodotto nelle più importanti fiere ed esposizioni, fra cui la nomina del fondatore, Pasquale Vena, a Cavaliere all’Ordine della Corona d’Italia, ottenuta il 20 dicembre 1916 da Vittorio Emanuele III e segnalata con lo stemma dei Savoia. Ci sono tutti gli elementi per introdurci in una vicenda che comincia a muovere i suoi passi nel lontanissimo 1894 e per giunta nel limbo di quella Basilicata coltivata a grano, nei pressi di Matera, in un paesaggio fatto di calanchi non ancora entrati nelle rotte turistiche di questi ultimi anni.
Il racconto dell’Amaro Lucano non soltanto reca i segni del coraggio – difficile, per non dire proibitivo, costruire un brand in condizioni logistiche semiprimitive, ai margini dei grandi mercati e dei maggiori centri di produzione – ma riassume i caratteri di un’impresa che cerca e trova la propria affermazione nei tanti crocevia del secolo scorso attraversati da Pasquale Vena e dai suoi discendenti: l’emigrazione verso le Americhe, l’apprendistato di pasticciere nella Napoli della Belle époque, l’adesione a una sorta di antifascismo che nello specifico assumeva il nome di un politico originario di quella stessa terra, Francesco Saverio Nitti, la stagione del dopoguerra e della ricostruzione, la conquista di sempre più larghe fette di mercato. I capitoli di questo libro riassumono gli sforzi compiuti per dare vita a un marchio dalla lunga durata nel quale riconoscere i caratteri di un popolo (quello lucano in relazione a quello italiano) e, anche se talvolta la penna degli autori indulge con qualche eccesso a considerazioni generiche sulla creatività del Bel Paese, hanno l’incedere di una piccola epopea imprenditoriale, entrata in rapporti diretti con il disegno della grande Storia, a garanzia del fatto che anche Pisticci, il paese dove nasce questo marchio, rappresenta il punto geografico in cui la civiltà della terra (le erbe, la natura, la sua genuinità) si rifonde nei caratteri di un’avventura industriale a largo respiro.
Ma lo slogan pubblicitario “Cosa vuoi di più dalla vita?”, coniato sul finire del Novecento, pone certo una domanda retorica – sappiamo tutti infatti che suggerisce un giudizio di merito, quasi a sottolineare che non c’è nulla di meglio di quel prodotto – ma è tutt’altro che retorico l’impianto ideologico da cui discende, anzi fornisce una risposta nemmeno troppo implicita al dramma nazionale di cui siamo stati spettatori.
In un’Italia minata dalle inchieste di Mani Pulite, dinanzi al disfacimento della Prima Repubblica, quella domanda non soltanto legittimava l’opportunità di inseguire ciascuno i propri bisogni individuali, di rincorrerli, di appagarli, ma candidava l’Amaro Lucano a simbolo di una incorruttibilità. Poteva sembrare che un nuovo edonismo prendesse forma in quel momento, non meno deleterio del riflusso, della finta leggerezza, del minimalismo che avevano caratterizzato gli anni Ottanta. Al limite poteva risultare un quesito senza risposta. Invece c’era: “Voglio il meglio”. E c’era anche la formula per conseguirlo: “Lavoro e Onestà”, le parole nel cartiglio in bocca all’aquila.
Erano esattamente questi gli elementi che occorrevano all’Italia di Tangentopoli per uscire dall’impasse.
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Cosa vuoi di più dalla vita?
Francesco Vena Emiliano Maria Cappuccitti: Amaro Lucano: storia di un’Italia dal bicchiere mezzo pieno
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2020
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