Il primo giorno dell’autunno di quest’anno 2020, mercoledì 23 settembre, a 93 anni, è morta Juliette Greco, la Musa di Prévert, Brel e Brassens. Ecco l’addio di Riccardo Piaggio su Il Sole 24 Ore, Domenica, 27 settembre 2020
La piccola Marianne
la voce nata dal silenzio

«Siamo un popolo che esprime il suo amore, la sua rabbia, le sue rivoluzioni attraverso le canzoni». Chi vuole comprendere perché abbiamo una certa idea di Francia, di Parigi e della sua geografia sonora, deve ascoltare Juliette Gréco, la piccola Marianne di cinque generazioni di francesi e tra le più formidabili voci-manifesto della seconda metà del Secolo scorso. Una cantante che ha segnato il destino creativo (e turistico) della Capitale francese, dalla Rive Droite (l’Olympia e Montmartre) alla Rive Gauche (Saint Germain e Montparnasse). Morta mercoledì scorso a 93 anni nella sua casa di Ramatuelle, in Provence (la Francia, oltre il Boulevard Périphérique), fu musa di Sartre e somma interprete femminile di tutte le grandi penne e voci maschili francesi, Jacques Prévert ( Je suis comme je suis , Les Feuilles Mortes ), Serge Gainsbourg ( La Javanaise ), Léo Ferré ( Jolie Mome ), Jacques Brel ( Ne me quitte pas , Chanson des Vieux Amants ), Georges Brassens ( Le temps passé ). Ha cantato i versi di Raymond Queneau ( Si tu t’imagines , la prima raccolta del 1950), dello stesso Sartre e ispirato, a suo modo, Miles Davis, con cui ebbe una relazione finita tragicamente (per lui), epifania della caduta libera nell’incubo dell’eroina. Nata nel 1927 a Montpellier da padre italo-corso e madre francese, fece la Resistenza e fu prigioniera della Gestapo; dopo la guerra, Juliette contribuisce a generare il mito di Saint Germain des Prés, piccola fetta del sixième Arrondissement parigino (oggi il più caro della Capitale) tra il Café de Flore, Les Deux Magots e la Brasserie Lipp (tutti, tutt’ora in attività), là dove gli esistenzialisti (Sartre, grande suo amico) cinguettavano con i filosofi dell’esistenza (Ricoeur, Marcel, Wahl, Deleuze); e dove ogni singolo giorno si poteva fare la conoscenza di scrittori come Hemingway e Camus, di artisti come Picasso e Boris Vian. La voce di Juliette Gréco non aveva certo la forza militante e la presenza scenica di Edith Piaf, ma le sue mani, che ondeggiavano come arabeschi, offrivano alle parole delle sue canzoni un nuovo alfabeto emotivo e hanno disegnato quell’affresco epocale che conosciamo, da mezzo secolo, con il nome di variété francese, proiettandolo nell’immaginario globale. Cosa ci voleva dire, insomma, questa piccola italo-corso-francese, al netto di testi che non scriveva ma trasformava con una freschezza che non riesce ad invecchiare? Je suis comme je suis , senza bisogno di dire, ad ogni costo, Je ne regrette rien . Il n’y a plus d’après , ha titolato imprudentemente il quotidiano «Libération»; già, perché per almeno sessantacinque anni (dal primo album del 1950 all’ultimo spettacolo teatrale, Merci del 2015) la voce di Juliette Gréco è stata il presente della musica leggera francese (sarà così, ancora, almeno per un po’) ed ha contribuito a modellare la mappa sonora dei quartieri di Parigi, a ciascuno dei quali corrisponde almeno una di quelle canzoni che tutti riconosciamo, senza nemmeno bisogno di conoscerle

 

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