Oggi è la giornata delle missioni. Io e mia moglie Titina, in tale ricorrenza, eravamo soliti partecipare alla Celebrazione dell’Eucarestia nella Basilica di San Francesco, qui a Ferrara. in ricordo del padre missionario Pancrazio De Grrazia (che io chiamavo Benì). Racconterò più avanti come a San Francesco mi incontrai col successore di Benì nella missione del Borneo, padre Antonio Razzoli.

Benì lo chiamavo, come sono chiamati a Tricarico coloro che hanno nome Pancrazio, prevalentemente se figli di padri con storia di emigrazione in America. Il mio amico Pancrazio Desopo, emigrato in America nel 1954, col quale ero rimasto in contatto prima epistolare e poi anche telefonico fino alla fine della sua vita, mi dette una strana spiegazione di questa metamorfosi del nome Pancrazio: pare che gli oriundi tricaricesi ritenessero che, nella lingua del nuovo continente,  la versione di Pancrazio fosse Benjamin, da cui l’abbreviato Benì. Pancrazio Desopo, che a Tricarico era sempre stato eccezionalmente chiamato Pancrazio e non Benì, firmava le sue lettere col nome Pancrazio, ma sul retro della busta scriveva come mittente Benjamin: From Benjamin Desopo.

   Benì è stato un mio compagno degli anni dell’infanzia, più anziano di me di tre mesi. Sugli undici anni le nostre vite si divisero. Io ero amico del padre Andrea, detto Carmusidd, fervente democratico cristiano e frequentatore assiduo della sezione della Democrazia Cristiana, di cui io sono stato segretario per alcuni anni; Andrea mi dava notizie del figlio e me ne parlava con struggente nostalgia e orgoglio, ma con la ferma convinzione che il figlio fosse stato indotto con un imbroglio a dedicarsi alla vita missionaria. Gli obiettavo che faceva torto alla fedele vocazione di Benì, della quale, peraltro, Andrea, con inavvertita contraddizione, era fiero.

     Per l’età avanzata e una vita d’inenarrabili privazioni e disagi in lontane regioni dell’Estremo oriente, funestate da guerre e rivoluzioni, la notizia della morte di Benì non mi sorprese. Le privazioni e i disagi non erano solo immaginate, ma mi venivano riferite dal padre Andrea, dalla sorella, da Angelo Aragiusto e da padre Razzoli. Mi interrogavo sul senso di una vita vocata al sacrificio più grande per sé e imposto alla famiglia, e provai la commozione e l’emozione di cielo e terra che si toccano per opera di un nuovo santo chiamato al Cielo.

     Ci eravamo frequentati pochissimo. Nel 1943, a 13 anni,  egli andò in seminario e io già da due anni avevo lasciato Tricarico, per proseguire i miei studi dopo le elementari. Giovanissimo, Benì raggiunse terre di missione in Estremo Oriente e ci siamo rivisti a Tricarico due o tre volte; brevi incontri casuali – fortunate coincidenze – durante i miei brevissimi soggiorni a Tricarico: nella Chiesa cattedrale per la Messa da lui officiata; sull’uscio di casa sua, dove mi trovavo a passare; in piazza. Erano incontri brevi con la naturalezza di chi non si fosse mai perso di vista.

   Apprendendo della sua morte, nutrii la speranza, mi pare vanamente coltivata, che la Chiesa di Tricarico l’avesse ricordato, lo ricordasse e lo onorasse, e mi venne alla mente la risposta che dette a una mia domanda in occasione dell’ultimo nostro incontro, che rende plasticamente il senso di una vita di dedizione al prossimo e di sacrifici. Forse avevamo cinquanta o sessant’anni, ma egli ne mostrava novanta. Con le parole della sconvolgente catechesi di Papa Francesco ora posso dire che padre Pancrazio aveva addosso la puzza, che impregnava tutte le sue carni, delle pecore del lontanissimo gregge affidato, di là dalla fine stessa del mondo, alle sue cure spirituali. Gli chiesi in quale parte del mondo allora esercitasse il suo ministero e come vivesse. Mi rispose che viveva nel Borneo in un villaggio di capanne di paglia o di legno costruite su palafitte, in una zona acquitrinosa. – Chissà le zanzare! – mi venne fatto di osservare, vergognandomi mentre ancora pronunciavo queste parole. Pensavo alle zanzare di Ferrara, incantevole città sull’acqua dal clima caldo-umido, dalle quali ci difendiamo nelle nostre comode case con le doppie imposte, zanzariere interposte e i profumati rimedi, spray e creme contro le zanzare che la ricerca e l’industria ci forniscono, e l’aria condizionata. E mi vergognai, pensando che non si può paragonare il fastidioso problema delle zanzare a Ferrara con quello delle zanzare in un acquitrino del Borneo, con un grado di umidità inimmaginabile, un clima incandescente e irrespirabile, che ottunde le menti. E non immaginavo la risposta che Benì mi dette: – Le zanzare? Sì, dobbiamo stare attenti alle zanzare, portano malattie. Ma quelle che danno veramente fastidio sono le sanguisughe, se ne attaccano tante alle carni. –

   Di Benì lasciai raccontare in un altro ricordo al padre Andrea, estrapolando il passo relativo dal racconto, in parte scritto da Andrea e in parte dettato a Rocco Scotellaro nell’estate del 1953, in una delle  cinque interviste del libro-inchiesta di Rocco Scotellaro I contadini del Sud, intitolata Tra cinquanta piantoni uno deve essere il migliore. Riprendo le pagine di Contadini del Sud.

 «    Ho 4 figli:
– TERESA, di anni 26, sposata a un piccolo proprietario;
– PANCRAZIO, di anni 22 che prende la messa tra tre anni nel 1956;
– MAURO, di anni 21 studente di III liceo;
– MARIA CARMELA, di anni 16, che aiuta la madre in casa.
     Volevo far studiare Pancrazio ma dato che la possibilità non c’era, l’ho mandato con 3 anni di ritardo,  nel 1943 quando mi ripigliai di più come tutti i contadini con l’aumento del grano. Lo misi nel seminario  di Potenza, lo misi con l’intenzione di farlo studiare  da prete diocesano, l’intenzione mia era di farlo studiare, ma la vocazione è venuta a lui.
     Frequentando gli anni, è passato al liceo del Seminario a Salerno. Io ci sospettavo questo: tutto il  mio piacere, tutta la lode di Dio di avere un figlio  sacerdote e se si guastava era un dispiacere per me se ne usciva, ma intanto Dio ha voluto ancora  una vocazione superiore di farlo andare nei Missionari  di Oblata Immacolata Maria a Ripalimusano (provincia  di Campobasso) dove ora fa il noviziato dal  14-12-1952.
     Quando veniva in licenza e figurati la mortificazione e il dolore che ci tengo nella vita, tanti sacrifici io ho fatto per lui, 9 anni in Seminario a pagare 74-75 mila lire a Potenza, 84-85 mila lire a Salerno  senza degli indumenti, una sola sottana 10-12 mila  lire. Più di 100 mila lire all’anno. Quando non bastava  il Seminario, mi scrivevano di portare qualche cosa  in tempo di guerra che non si poteva avere nulla.
     È una mortificazione a fare un giovane grande di 22 anni e poi non vederlo più e io non l’ho scritto  neanche con questo disturbo che mi ha dato di farsi  missionario. Però lui venne quando fu la votazione del 7 giugno ([1]), io stavo facendo l’istruttore alle Acli di agricoltura generale, ci vado a casa e trovo lui e difatti io non gli dissi nulla. Pancrazio mi chiamò, è rimasto mortificato, quasi piangeva. Allora io gli domando: – Come hai fatto tu di fare questo spostamento da prete diocesano andare nelle Missioni? Come io  non volevo pagare? Io stavo in corrente a pagare. E gli dissi: – Tu pensaci se puoi ritornare ancora a Salerno. Lui mi confortò, disse: – Babbo, io mi faccio sacerdote per salvare le anime e facendo le carità, non mi faccio sacerdote per tenere la casa o per la  famiglia o per la campagna perché sono scrupolosissimo delle critiche. Dio mi ha voluto così e io debbo  essere a sua soddisfazione. E io gli risposi: – Pensaci  che io ci ho 500 mila lire di debiti per fare studiare  a voi a te e a tuo fratello. E sto lavorando per il solo interesse che devo pagare ai creditori e pensaci che ho venduto anche un pezzettino di terreno il 1952 (quello di 70 are che mi presi per 500 lire) e mi  vorrei vendere ancora la vigna e le ulive per saldare  il debito che io tengo. Ma quando mi vorrei vendere anche qualche altra cosa, pure che tu ritornassi al solito posto a Salerno. – Ma non è stato possibile.  Adesso, per amore di padre, ho cominciato a rispondere a qualche lettera, ma lui è tutto contento e io sempre  mortificato ».   
     La vocazione missionaria di Pancrazio è raccontata anche da Rocco Scotellaro nella Premessa al racconto di Andrea:
« […]Chi arriva alla messa è la « grandezza della famiglia: Beata quella casa dove cappello di prete trase. Ma il figlio di Di Grazia né si spoglia né potrà arrivare alla messa di prete diocesano, perché è capitato questo particolare riferito in confidenza: i frati missionari, ogni tanto, vanno in giro nei seminari in cerca di giovani anime disposte alla più grande rinuncia del mondo. Capitò nel seminario di Salerno uno di questi frati e chiese al Padre Rettore se c’era qualcuna di quelle anime disposte. Nessuna avrebbe osservato in prima il Rettore e, dopo un momento di meditazione, forse uno sì, il Di Grazia Pancrazio di Andrea. E lo avrebbero «convinto» il figlio di Andrea con tutte le buone maniere, con tutte le lusinghe, Andrea dice «convinto» e rotola le mani aperte per dire quasi «imbrogliato» […] ».

   Riposa in pace nella gloria dei Santi, caro Pancrazio: le sanguisughe non si attaccano al tuo Spirito.

   Dopo aver rilasciato questo ricordo fui meglio informato dalla sorella Maria Carmela, che vive a Garbagnate di Milano, e da Angelo Aragiusto, che vive a Bologna.

   Benì fu ordinato sacerdote il 2 luglio del 1957. All’ordinazione non partecipò il padre, in quel periodo – lo giustifica la figlia – particolarmente impegnato nel lavoro del raccolto. Furono presenti la sorella Maria Carmela, il fratello Mauro e una “signora di Tricarico”. Celebrò la sua prima Messa nella Cattedrale di Tricarico cinque giorni dopo, il 7 luglio, con una solenne cerimonia presieduta dal vescovo mons. Raffaello delle Nocche e da tutti i sacerdoti di Tricarico. Benì rimase in Europa per circa un anno, nelle prime settimane a Onè di Fonti, in provincia di Treviso, quindi in Francia per l’apprendimento del francese e la preparazione alla vita missionaria, alla quale di dedicò per diciannove anni nel Laos. Per l’ordinazione sacerdotale e la partenza per le missioni, rispettivamente, Maria Carmela dedicò al fratello le seguenti poesie:

ANCHE TU
In quel giorno
sei diventato
ministro di Dio.
     Anche tu …
benedirai il pane
ed il vino
come Gesù.
     Con le tue mani
consacrate, distribuirai
la mensa Eucaristica.

AGOSTO 1958 – Partenza per le missioni
Anche tu,
come gli apostoli
mandati da Gesù,
predicherai il Vangelo
ad ogni creatura
ed ameranno te
nel Suo nome.
     Anche tu
troverai strade sconfinate
e la tua croce
da portare.
Abbi coraggio,
il Signore è con te.  
   E un giorno
 anche tu
godrai delle
lodi del Signore.
     Anche tu
Sei fratello di Gesù.

   Nel 1977 la missione fu distrutta da un’invasione dei kmer rossi. I kmer rossi – comunisti cambogiani – instaurarono un regime di terrore per quattro anni, dal 1975 al 1979. Il Laos è a nord della Cambogia e non fu interessato al regime di instabilità della Cambogia coinvolta, nel conflitto vietnamita, dal colpo di stato di Lon Nol, che intraprese un’azione brutale contro i rivoluzionari del partito comunista di Kampouchea, detti in francese kmer rouges (da kmer, lingua ufficiale della Cambogia), dando modo a Pol Pot di approfittare per iniziare una sollevazione armata contro il governo e instaurare il regime di terrore dei kmer rossi, e l’invasione vietnamita. Nel corso di una spedizione dei kmer in territorio laotiano, la Chiesa e la missione in cui operava Benì furono distrutte, gli addetti alla missione costretti alla fuga, Benì e un altro missionario furono legati a un palo e bastonati selvaggiamente. A Benì le bastonate fracassarono i ginocchi e la tibia. Liberati da bonzi locali, i due missionari furono da questi accolti nel loro convento fin quando le loro condizioni non consentirono il trasferimento in ospedali europei per le cure del caso. Benì fu trasferito a Bologna, dove fu operato e gli fu applicata una protesi alla tibia. Ristabilitosi, gli fu assegnata una nuova missione in Indonesia, dove ha operato per circa vent’ anni. La missione aveva un’ampia circoscrizione, “grande quanto mezza Italia”, che obbligava a lunghi spostamenti, da un’isoletta all’altra. Durante uno di questi spostamenti di notte, in motoretta, a causa di un ramo, che ostruiva la strada e del quale non si avvide (ma vedremo che si sospettò invece un agguato), cadde rovinosamente, rimanendo immobilizzato per un lungo periodo, fino a quando il buon samaritano di passaggio lo caricò su un carrettino e lo portò in un ospedale, dove gli prestarono le prime cure. Ma le sue condizioni erano talmente compromesse, che dovette tornare in Italia, nuovamente a Bologna, dove fu sottoposto a vari interventi alla cervicale, alla colonna vertebrale a pezzi e alla schiena. Gli interventi non fecero miracoli, Benì non si riprese mai, la plegia immobilizzava sempre più parti del corpo.  Fu mandato a Taranto, dove fu ospite per vari anni presso un Centro per missionari, cercando di rendersi utile nei ridottissimi limiti delle sue possibilità. Ma siccome le sue condizioni peggioravano progressivamente fu trasferito a S. Giorgio Canavese dove i Padri avevano una casa e un ricovero. Le sue condizioni di salute peggioravano. Negli ultimi anni non riusciva a deglutire se non con l’aggiunta di polvere gelificante per acqua e liquidi.

   Lascio il racconto della sua fine alla sorella: «Non si è mai lamentato. Gli chiedevo, come stai? E lui rispondeva: Bene. L’ultima volta che andai ha trovarlo cercava l’acqua, come ti senti ? li domandai, e lui rispose bene. Io capii che era l’ultima volta che lo vedevo. Aveva perso l’uso delle gambe, le braccia e i movimenti, ma la memoria era limpida. Lui seduto sulla carrozzina cercava ancora di sorridere, e col Breviario in mano mi guardava e sorrideva. Ma una sera stava mangiando quando si è accasciato al suolo a nulla valsero tutti i soccorsi. Padre Pancrazio è morto in odore di Santità, senza dimenticare il paese natio e la gente e l’ha amato. I funerali si svolsero nella loro casa, attorniato dai suoi confratelli arrivati da tutta l’Italia, dai parenti e amici si S. Giorgio Canavese, dove riposa nella cappella degli O.M.I.»

    Angelo Aragiusto mi ha informato che venne casualmente a sapere, nel novembre del 1998, della presenza di Benì a Bologna, presso un istituto appartenente al suo Ordine di missionario oblato e  e si recò dopo qualche giorno a fargli visita. In seguito si rividero più volte, anche a pranzo o a cena a casa di Angelo, i cui figli pendevano dalle labbra di Benì che raccontava l’avventurosa sua esperienza missionaria, documentata anche con alcune diapositive visionate a casa di Angelo. Il 12 novembre del 2000 Benì andò a Taranto e i due non si videro in più. In quel periodo io lavoravo a Bologna, ma non avevo rapporti con Angelo, che non pensò di avvertirmi della presenza di Benì. Sento il vuoto di quell’occasione mancata di rivederlo.

   Il terremoto che colpì l’Emilia-Romagna nel maggio 2012 rese inagibile la chiesa da me frequentata, per cui io e mia moglie partecipavamo alla Messa in un’altra chiesa. Qui, in una delle prime domeniche, la Messa fu celebrata da un Padre missionario nel Laos, al quale mi presentai dopo la celebrazione e gli chiesi se avesse conosciuto Benì. Mi rispose che lo conosceva bene, anche se non personalmente, perché gli era succeduto nella titolarità della missione. Ci fermammo a parlare alcuni minuti. Il padre mi dette una diversa versione dell’incidente occorso a Benì: mi spiegò che non si era trattato di un incidente ma dell’esito di un agguato che gli era stato teso per vendetta, giacché Benì aveva cominciato a recintare il campo di proprietà della missione, per delimitare l’esatto confine e recuperare il terreno che era stato invaso e sottratto alla missione. Sorrisi: avevo visto, in Benì, lo spirito del contadino tricaricese, sempre in lite, con immancabile seguito in pretura, con i confinanti per la regolamentazione dei confini dei rispettivi fondi.
   Quella domenica avevamo bisogno di fare spesa in un vicino supermercato sempre aperto. Avevo cambiato giacca dimenticando la carta di credito. Con me avevo 60 euro: un biglietto dal 10 e uno da 50. Per l’offerta alla missione non potevo, quindi, che dare 10 euro. Al supermercato, al momento di pagare, mi trovai invece col biglietto da 10 euro, insufficienti a regolare il conto. Mia moglie mi disse: «Non hai confuso tu le due banconote. Quella da 50 euro te l’ha “sfilata” padre Pancrazio per la sua missione! »


[1] Elezioni del 7 giugno 1953 per il rinnovo della camera dei deputati e del senato della repubblica

 

5 Responses to Giornata delle Missioni. Ricordo di don Pancrazio De Grazia, missionario tricaricese in Estremo Oriente

  1. Angelo Colangelo ha detto:

    Ciao, Antonio. Mi congratulo per la tua interessante e commovente rievocazione del missionario tricaricese. Ti ringrazio anche per la spiegazione data alla strana metamorfosi del nome “Pancrazio” in “Benì”,apparentemente incomprensibile. Il tuo scritto, infine, mi ha consentito di ricordare la figura di don Benì Perrone, sacerdote di grande spessore culturale e spirituale, che per molto tempo mi fece dono della sua preziosa amicizia. ti auguro buon inizio di settimana. A presto

  2. Antonio M. ha detto:

    Caro Angelo, Ti ringrazio di aver richiamato alla memoria la cara figura di don Benì. Ci scambiavamo ancora qualche telefonata quando, non in buone condizioni di salute, era ospite del fratello, dove morì.
    Un affettuoso saluto, Antonio

  3. domenico langerano ha detto:

    Carissimo amico,
    non per incuria, ma per impegni e tensioni di varia natura, ahimè, non ancora terminate , dopo molto tempo riprendo a leggerti con rinnovato interesse perché i tuoi ricordi lo meritano per contenuto e per la colta, puntuale e scorrevole scrittura.
    Di don Pancrazio ricordo, da giovanissimo seminarista nel seminario di Potenza, verso fine anni cinquanta, gli occhi sorridenti di questo minuto missionario che esprimevano umiltà e grande bontà.
    Come quel padre missionario che girava nei seminari per convincere qualche giovane a fare il salto di impegno ecclesiastico nelle missioni mi ha fatto ricordare, e quì te ne rendo testimonianza, che anche lui fu “usato” con questo ruolo perché proprio nel seminario di Potenza rivolto all’intera assemblea dei seminaristi, raccontò la sua esperienza nei paesi comunisti d’oriente, dove non essendo permesso avere il messale, per poter celebrare la messa bisognava sapere a memoria la parte centrale della messa, la liturgia eucaristica, e per questo ci sollecitava a farlo, dal momento che in quel seminario si tenevano le ‘olimpiadi’ del Vangelo, una sfida tra le camerate a recitare a memoria i versetti ottenendo per ognuno di essi un punteggio di 1, se in italiano, di 3 se in latino e di 5 se in greco.
    A testimonianza della ferocia antireligiosa di quei regimi comunisti un confratello che lo accompagnava, al quale avevano mozzato la lingua, mostrava a noi giovanissimi seminaristi la bocca aperta, vuota della maggior parte della lingua (erano i tempi della scomunica del comunismo.
    A Tricarico, da seminarista, credo una volta di aver servito anche una sua messa.
    Ciao Antonio, ti rendo grazie di questi ricordi
    Mimmo

    • Antonio ha detto:

      Caro Mimmo, E’ un gran piacere leggerti dopo un lungo silenzio, e ti ringrazio. Permettimi una precisazione. L’esperienza di terrore che avrebbe potuto riferire p. Pancrazio non fu vissuta nei paesi comunisti d’Oriente ma esclusivamente nella Cambogia di Pol Pot. Altro che messale!. Furono uccisi circa 2 milioni di cambogiani su una popolazione complessiva di 8 milioni non per la colpa di non essere comunsti, ma di essere colti; e se uno portava gli occhiali ci rimetteva la pelle. P. Pancrazio non era missionario in Cambogia, ma nel confinante Laos. Un gruppo di comunisti polpotiani cambogiani, che varcò casualmente il confine, distrusse la missione e fece un macello, come diciamo noi. P. Pancrazio fu fortunato, perché non fu ucciso, ma fu legato a un albero e bastonato di santa ragione. Lì rimase due giorni fin quando si trovò a passare il buon samaritano.Pol Pot aveva studiato in Francia ed e era ricco e colto. Non era impazzito, seguiva una precisa ideologia condivisa, che aveva tutto a che fare con la crisi vietnamita.
      Ho fatto un po’ di casino e mi scuso, ma la storia è assai più complicata di come la raccontano.
      Un abbracco, Antonio

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