Il mondo di GIUSTINO FORTUNATO
ESPLORATO DA GIUSEPPE MASTROMARINO (di ANGELO COLANGELO)
Procede a marce forzate il lungo viaggio di esplorazione di Giuseppe Mastromarino nel mondo, ancora in parte incognito, del grande meridionalista lucano Giustino Fortunato (Rionero in Vulture, 1848 – Napoli, 1932). Solo pochi mesi dopo la pubblicazione delle “Lettere di Giustino Fortunato a don Giovanni Minozzi e la nascita dell’Opera” è uscito, sempre per i tipi Giannatelli di Matera, “Il mondo di Giustino Fortunato Nei suoi scritti e nel racconto di Giuseppe Catenacci e di don Giovanni Minozzi”.
Il bel saggio, che si regge su un delicato equilibrio fra ricerca attenta, lucida analisi dei documenti ed esigenza divulgativa, mi è giunto, molto gradito, in un momento di estrema inquietudine, in cui anch’io “mecum tantum et cum libellis loquor”: parlo, cioè, solo con me stesso e i libri, auspicando di tornare a vivere giorni più sereni.
Nei primi tredici densi capitoli del volume si indaga, in particolare, un periodo significativo della biografia umana e intellettuale di Fortunato, quello compreso fra il 1923 e il 1930, cui fa riferimento la sua corrispondenza con Giuseppe Catenacci. In un quattordicesimo capitolo, poi, sono raccolte in appendice, dopo una breve ma succosa presentazione dell’autore, ricche sintesi, commentate e annotate, dei più significativi scritti fortunatiani, ivi compresi i “Discorsi politici”.
Insomma, nel suo ultimo lavoro l’autore si propone, riuscendovi, di operare una ricognizione accurata di persone, fatti, eventi del pianeta Fortunato. S’impegna così in un esame documentato e argomentato della complessa personalità del meridionalista rionerese attraverso la nutrita corrispondenza epistolare che egli intrattenne con Gennaro Catenacci (1867 – 1952), amministratore dell’azienda di Gaudiano di proprietà della famiglia Fortunato; con il caro amico Giuseppe Catenacci (Rionero in Vulture, 1893 – 1975), il versatile ingegnere che fu uomo politico e dotto umanista, storico e poeta; con don Giovanni Minozzi, a sua volta intrinseco di quest’ultimo oltre che di don Giustino.
A chi abbia una qualche familiarità con l’attività critica di Mastromarino non risulta certo sorprendente la sua capacità di analizzare con diligenza ed acume le relazioni tra la biografia umana, politica ed intellettuale di Giustino Fortunato, considerata nel ristretto contesto sociale della comunità di origine e, ad un tempo, nel più ampio orizzonte degli eventi nazionali, che maturano dopo la nascita e l’affermazione del fascismo.
Acquistano, così, nuova luce pensieri, sentimenti, atteggiamenti, fatti privati e pubblici eventi, che segnarono la vita di don Giustino, soprattutto nel decennio finale della sua lunga e tormentata esistenza: il ritorno alla fede materna dopo anni di sostanziale agnosticismo; la sua intransigenza morale e il suo pessimismo acuito da delusioni, lutti e malattie; la speculazione sulla questione meridionale e le riflessioni sui temi della guerra e dell’istruzione; la posizione da lui assunta verso il regime fascista. Insomma, una rappresentazione a tutto tondo del grande Lucano e del suo impegno politico, civile, culturale.
Riguardo a quest’ultimo aspetto Mastromarino, avvalendosi di puntuali riscontri offerti dalle lettere indirizzate da Fortunato non solo a Giuseppe Catenacci, ma ad altri amici come Luigi Corapi, Umberto Zanotti Bianchi e Giovanni Ansaldo, sgombra il terreno da ogni possibile equivoco sull’atteggiamento che il vecchio liberale lucano assunse verso il regime fascista, da cui nulla sperava, anzi tutto paventava “dal suo estendersi e tiranneggiare”. E, dopo aver profeticamente ammonito già nel 1923 a non coltivare alcuna illusione circa una sua breve durata, aveva concluso in modo inequivocabile che il fascismo “è l’antitesi della libertà e della saviezza, due cose ognora ostiche alle genti italiche”.
Tra i numerosi spunti di riflessione, che il libro “Il mondo di Giustino Fortunato” fornisce al lettore, ne vorrei evidenziare almeno un altro, che a me pare molto attinente alla realtà politica nazionale del nostro tempo. Riguarda il tema della moralità, che l’uomo politico lucano considera in stretta correlazione con i problemi sociali, economici, culturali. Ma anche con l’organizzazione dello Stato. Egli, infatti, sostenne senza tentennamenti l’idea che l’unità nazionale fosse necessaria per molte ragioni, non ultima quella di evitare una deriva autonomistica, che avrebbe finito per rafforzare le oligarchie locali e le loro politiche clientelari.
Non è chi non veda quanto questo argomento sia di drammatica attualità. Da almeno tre decenni, vale a dire dal tempo della famigerata “Tangentopoli”, da più parti si continuano a proclamare iniziative tanto clamorose quanto sterili per porre fine al fenomeno intollerabile della corruzione, che avvelena la vita politica, sociale, economica italiana. E appare evidente che un notevole contributo al fenomeno corruttivo sia stato dato dalla istituzione delle Regioni nel 1970, avvenuta al di fuori di ogni quadro normativo.
Ma in riferimento al tema della moralità vale la pena di proporre un episodio, apparentemente marginale ma sicuramente emblematico, che vide protagonista il senatore del Collegio di Melfi e che Mastromarino documenta in maniera molto dettagliata.
Fra i tanti dispiaceri procurati a Fortunato dai compaesani del “natio borgo selvaggio” e dai suoi avversari politici c’è anche quello derivante dall’accusa di aver mantenuto la carica di senatore, benché fosse ostile al fascismo. Lo avrebbe fatto, secondo i detrattori, solo al fine di godere delle indennità derivanti dalla carica ottenuta nel 1909, quando aveva rinunciato, dopo ventinove anni e nove legislature, a candidarsi come deputato.
Al senatore non fu difficile smentire i suoi malevoli accusatori. Dimostrò, infatti, che, non potendo per legge rinunciare all’identità fissa prevista per i senatori, che pure egli aveva proposto di abolire, l’aveva interamente devoluta all’Opera Nazionale Combattenti, a istituzioni benefiche e a giovani studenti bisognosi.
La specchiata onestà di don Giustino, peraltro, è comprovata dal fatto che egli “durante i trent’anni di vita parlamentare, era costato al fratello [Ernesto] un milione e cinquecentomila lire”. Fa bene a rimarcarlo l’amico e discepolo Giuseppe Catenacci, il cui fecondo rapporto con il Maestro è ben lumeggiato da Mastromarino attraverso una fine disamina delle affinità e delle diversità fra i due, che serve a fare emergere anche la notevole statura dell’ingegnere, “uomo dal multiforme ingegno”. Ma “de hoc satis dictum est” e ogni ulteriore commento sarebbe superfluo.
C’è, però, spazio e tempo per una doverosa chiosa conclusiva. Nella sua ultima fatica letteraria Mastromarino non fa nulla per nascondere una personale simpatia per Giustino Fortunato. Tale consentaneità, comunque, non inficia il valore della sua analisi, che riesce a mostrare le rare qualità del Rionerese, senza occultarne le debolezze e le fragilità, e ne mette in evidenza i grandi meriti, senza trascurare i limiti del suo pensiero e del suo agire politico.
Questo saggio, perciò, rappresenta un’altra pietra miliare nel lungo ed impegnativo percorso intrapreso dall’autore per approfondire e diffondere la conoscenza dell’“apostolo della questione meridionale”. Che da alcuni è stato, purtroppo, sempre colpevolmente ignorato, da altri è stato troppo presto dimenticato. Eppure è incontestabile che, pur in un contesto storico del tutto mutato, alcune riflessioni politiche di Fortunato e, più ancora, il suo nobile sentire, il suo forte impegno civico, il suo esemplare senso etico possano aiutare a comprendere e ad affrontare la drammatica realtà del nostro tempo.
Angelo Colangelo
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