Quella voce del vento
Se ci trovassimo ad entrare alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo, avremmo la fortuna di poter vedere uno dei quadri più rappresentativi dell’intero romanticismo tedesco. Qui infatti è conservato il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, vero e proprio manifesto dell’arte romantica. Fissando la tela, ci troveremmo di fronte ad una figura d’uomo, un viandante appunto, ritratto di spalle, in controluce, che si erge poggiato a un bastone su uno sperone roccioso. I suoi capelli rossi sono scossi dal vento. Sotto di lui un panorama mozzafiato, una valle ampia e maestosa coperta dalla nebbia. Lo sguardo del viandante si può perdere, forse rimanendone sopraffatto, davanti alla vastità che si estende in lontananza fin dove la nebbia diviene tutt’uno con il cielo nuvoloso. Il senso dell’infinito, del sublime e del mistero convergono in quest’opera in cui il viandante si trova solo di fronte alla grandiosità della natura. Guardando quest’opera, i nostri occhi si immergerebbero in una bellezza sovrastante eppure quest’esperienza non sarebbe completa. Quel quadro, esposto in una sala del museo di Amburgo, non potrebbe raccontarci i suoni di quel paesaggio che, certamente, ne aumenterebbero ancor di più la sensazione di grandiosità.
Lo stesso accade quando decidiamo di sfogliare alcune foto fatte anni prima. Occasioni che ci ritraggono assieme ad amici e familiari. La gioia di sorrisi, abbracci, luoghi vissuti. Foto che segnano occasioni e momenti importanti, che ricordiamo con piacere. Eppure, anche in questo caso, se l’immagine è nitida, il suono è assente. Perduto.
Quando affermiamo che la nostra è una società dell’immagine diciamo esattamente questo. È una società che basa la propria memoria su immagini viste e conservate. Quella di catturare l’immagine e di conservarla nel tempo è un abilità antica. Conosciamo molte abitudini degli uomini primitivi grazie alle pitture rupestri, che risalgono ad oltre trentamila anni fa. Abbiamo negli occhi la bellezza dei papiri egizi o le tante forme di narrazione attraverso le immagini cui i popoli, nel tempo, hanno dato vita. Da sempre, la possibilità di ritrarre, di dipingere, ci ha permesso di conoscere come apparissero luoghi e persone nelle diverse epoche. L’immagine conservata è, a tutti gli effetti, una fonte preziosa per conoscere il passato.
Così non è per tutto ciò che è acustico. La capacità di conservare nel tempo un suono è invenzione tutto sommato recente. Solo nel 1878 lo statunitense Thomas Edison inventò il fonografo, il primo strumento capace di catturare la vibrazione del suono e di inciderla, attraverso una puntina, su una stagnola posta attorno ad un cilindro. Per la prima volta, il suono veniva registrato e poteva essere riascoltato a distanza di tempo.
Ogni paesaggio visivo custodisce accanto a sè, in maniera naturale, anche un paesaggio sonoro altrettanto profondo ed eloquente, capace di fornire significati e risposte che l’immagine, da sola, non potrebbe dire. Il fatto di non poter registrare il suono ci ha consegnato una storia priva della componente sonora, sbilanciata su tutto ciò che è immagine ma, per certi versi, muta.
Ritornando per un attimo nella sala in cui è esposto il Viandante sul mare di nebbia potremmo “posare l’orecchio” sul quadro e provare a percepirne la potenza sonora. I capelli del viandante sono scossi dal vento. Chi ha avuto esperienza del vento che soffia in montagna sa bene che esso ha una voce particolare, quasi un sibilo che si somma ai suoni degli oggetti che scuote al suo passare (rami, erba, foglie). La voce del vento che sibila in montagna è diversa dalla brezza marina, esso si modula in un’infinità di variazioni vocali a seconda di come e dove soffia. La bora che soffia a Trieste ha un timbro vocale completamente diverso dal maestrale sardo. Possiamo immaginare il viandante intento a perdersi con lo sguardo lungo la linea dell’orizzonte mentre ascolta il canto potente di questa voce che si muove tra le valli e porta con sé i suoni delle rocce sfiorate e delle foglie scosse dal suo passare.
Ma il viandante, in piedi sullo sperone roccioso, vede la valle sottostante immersa nella nebbia. In condizioni di cielo sereno, potrebbe sentire i suoni del fondo valle in lontananza ma la nebbia, oltre che rendere impossibile un vista nitida, ha la caratteristica di attutire i rumori, di renderli ovattati, creando una dimensione sonora quasi surreale. Questo sforzo di immaginazione, basato sulla nostra esperienza sonora, ci permette di guardare il quadro di Friedrich rendendolo quasi tridimensionale, donandogli quella dimensione sonora che la mano dell’artista poteva soltanto immaginare. Ogni luogo esprime un proprio paesaggio sonoro, un insieme di eventi uditi che lo descrivono in maniera particolare e unica. Imparare ad ascoltarli e a distinguerli ci permette di comprendere l’influsso che questi hanno su di noi e come questi formino, a lungo andare, il nostro carattere e il nostro umore. Al tempo stesso, imparare a soffermarsi e ad assaporare le sfumature sonore dei luoghi che amiamo (un lago tra le montagne, una spiaggia che si immerge nell’acqua cristallina) ci permette di vivere pienamente un’esperienza di bellezza che, altrimenti, risulterebbe miope, priva cioè di quella profondità tipica di chi ha imparato ad ascoltare.
L’Osservatore Romano dell’11 novembre 2020. Cristian Carrara, musicista, è autore principalmente di musica sinfonica e da camera, ma anche di pezzi per il teatro musicale e la televisione. Le sue composizioni sono regolarmente eseguite in prestigiose sale da concerto.
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