A Spaccanapoli un mendicante suonava la fisarmonica. Cieco, con le gambe amputate all’altezza del tronco, si muoveva seduto su una tavoletta munita di piccole ruote agli angoli tra il primo breve tratto di via San Biagio dei librai, piazza del Gesù Nuovo, e il proseguimento di San Biagio, che era un alternarsi di botteghe di librai, mescite di vino e pizzerie con forni a legna, alimentati con trucioli, e palazzi e chiese che, in un viluppo di miseria e nobiltà, che caratterizza il centro di Napoli, ricordano le nobili casate e raccontano la storia di Napoli.

Non c’era traffico: non un’automobile, un motorino, una bicicletta; s’incontrava qualche carretto con cibo di strada: polpi cotti nel loro brodo impepato e piedi di porco. Il proseguimento di via San Biagio dei librai ora è intitolata a Benedetto Croce. Al n° 12, a pochi metri da piazza del Gesù, è il palazzo Filomarino della Rocca, di cui il filosofo acquistò il secondo piano, che adibì a sua dimora e, in un appartamento a questa adiacente, a sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici; e ora è anche sede della Fondazione e Biblioteca Benedetto Croce. Nei tre secoli precedenti il palazzo fu sede di un intreccio di storie di nobiltà napoletana dipanate nel giovanile saggio crociano, che ricorderò più avanti.

Mi era molto caro quest’angolo di Napoli, che attraversavo ogni giorno per recarmi all’Università o alla mensa dell’Università dalla mia pensione nella vicina via San Domenico Soriano; ma mi rammentava anche un’antica delusione, un grande dolore al termine della mia infanzia. Avevo 11 anni e mi mandarono a Napoli, presso miei zii, per frequentare la prima media; fui iscritto all’Istituto Antonio Genovesi in piazza del Gesù Nuovo, il più rinomato e storico liceo-ginnasio di Napoli; per la sua collocazione il Genovesi è conosciuto come la Scuola del Gesù resa popolare da una famosa canzonetta di Aurelio Fierro. Quando mia zia mi ci portò e mi trovai immerso nella vertigine dell’imponente piazza del Gesù, circondata da storici palazzi nobiliari e dal monastero di Santa Chiara, che da il titolo e il motivo a una famosa canzonetta del dopoguerra, al centro il maestoso Obelisco dell’Immacolata di marmo bianco e grigio e, lateralmente, la chiesa del Gesù Nuovo, con la facciata in bugnato a punta di diamante e la «mia» Scuola, che aveva sede nel seicentesco Palazzo delle Congregazioni, in origine sede di sei congregazioni Oratorio, restai a bocca aperta e provai una felicità che mi ripagava delle lacrime versate per aver lasciato mia madre e il mio piccolo paese lucano, i miei compagni e i miei giochi. Fui assegnato alla sezione I della prima media, che, per insufficienza di aule nell’antico edificio, era situata, con altre due classi, nell’appartamento di un condominio nella vicina via Santa Maria di Costantinopoli. Quell’emarginazione mi provocò un dolore straziante, la vissi come una ingiustizia e un inquietante presagio, un’onta che mi avrebbe macchiato per tutta la vita. Imparai cos’è l’infelicità. Tutte le notti, in un pianto silenzioso, soffocavo la nostalgia di Tricarico, il mio paese, e la delusione per il mio Genovesi perduto. Che senso aveva più lo strappo doloroso delle mie radici?

Via Santa Maria di Costantinopoli, da Port’Alba a via Foria, è considerata tra le più belle e monumentali vie di Napoli. Io scendevo alla fermata del tram di piazza Dante, mi avviavo verso Port’Alba e, ivi giunto, imboccando via Costantinopoli per andare a scuola, non potevo frenare l’ammirazione per la bella vista che mi si parava davanti agli occhi. Entravo a recitare una preghiera nella chiesa di Santa Maria della Sapienza, con la facciata a loggiato, dove –lo appresi molti anni dopo –il vescovo di Tricarico mons. Raffaello Delle Nocche fu ordinato sacerdote nel 1901, attraversavo poi la strada in tutta la sua lunghezza, fino al condominio dov’era la mia scuola, a fianco della galleria Principe di Napoli. Il condominio era brutto, salendo le scale gli occhi perdevano la luce che avevano acquisito e la tristezza mi pesava sul petto.

Il mio insegnante al liceo di latino e greco, che aveva compiuto i suoi studi classici alla Scuola Normale di Pisa col prof. Pasquale Modestino, il mio più caro e indimenticato amico ferrarese e maestro, per tutti tre gli anni del corso di studi liceali ci aveva parlato, per il vero come infatuato, di Benedetto Croce e ora, passare davanti alla dimora del grande filosofo, vedere quello che immaginavo fosse il balcone della sua stanza da studio, in cui era certamente immerso, mi comunicava una qual certa emozione. Con un mio ex compagno di liceo avevamo appurato l’ora della passeggiata del filosofo con i soliti amici, tra cui un prete, rettore del collegio Bianchi dei padri Barnabiti, padre Cilento d’origine lucana, di Stigliano; e quella passeggiata divenne anche la nostra passeggiata a rispettosa distanza.

Spaccanapoli si chiama così perché taglia in due buona parte della città, partendo dal rione della Pignasecca, ai piedi del Vomero, attraversando tutto il centro storico, tra cui la vecchia Toledo (via Roma), piazza del Gesù, piazza San Domenico, San Gregorio Armeno e via Duomo e giungendo alle spalle di Castel Capuano, nei pressi della Stazione Centrale; e la nostra passeggiata percorreva Spaccanapoli quasi per intero, all’andata e al ritorno, a partire da palazzo Filomarino. Talvolta si incontrava Renato Caccioppoli, matematico napoletano, coi suoi occhi che avevano la profondità e la tristezza di un lago, e con l’eterno impermeabile stropicciato, che, con passo lento e strisciante, usciva da una mescita o vi entrava. Com’è sbagliato il personaggio di Caccioppoli nel film di Mario Martone con occhi sbarrati di un pazzo, che, mulinando le braccia, solca Spaccanapoli come una furia.

La notizia della morte di Benedetto Croce ci fu data mentre cenavamo nella modesta trattoria da zia Carmela di piazza Dante e subito mi recai a palazzo Filomarino; mezzo portone era chiuso, come uso nel Meridione per la morte di un inquilino, con affisso un biglietto listato a lutto con una striscia nera tracciata con l’inchiostro nell’angolo in alto di sinistra e la scritta con l’incerta mano del portiere: «Per la morte di don Benedetto».

M’era dunque familiare e caro e carico di memorie e rievocava emozioni quell’angolo di Napoli dove il mendicante cieco e senza gambe suonava la fisarmonica sperando in qualche obolo. Grazie al mio professore di latino e greco, avevo letto e riletto le «Storie e leggende napoletane» di Benedetto Croce, la cui prima edizione fu del 1919. La prima storia, una delle più belle di quegli scritti giovanili del grande filosofo, è per l’appunto intitolata «Un angolo di Napoli», e narrale storie che quei luoghi rievocano e descrive le «vetuste fabbriche che l’una incontro all’altra sorgono all’incrocio della via di Trinità Maggiore con quelle di San Sebastiano e Santa Chiara» quando «levandomi dal tavolino, mi affaccio al balcone della mia stanza da studio». … terrarum mihi praeter omnes/ angulus ridet. HORATIUS. Il mendicante suonava la fisarmonica con intensa partecipazione, gli occhi chiusi, la faccia, una bella faccia bruna di chi vive sempre all’aria, prendeva l’aspetto di una mobile maschera grottesca, solcata da mille smorfie come in un abbandono orgasmico.

Una mattina –doveva essere l’autunno del 1950 -passavo per San Biagio dei Librai con Rocco Scotellaro. Ci fermammo tra il gruppetto di persone che s’era formato ad ascoltare una suonata del mendicante cieco e senza gambe. Quando finì il pezzo, mentre gli consegnavamo un obolo, Rocco mi disse: -Eccolo, l’angiolo deturpato -. Capii, era lui che aveva ispirato a Rocco la metafora degli angioli deturpati che, solo loro, cantano a Pasqua la morte del Signore. Conoscevo quei versi; avevo sempre pensato che l’ispirazione a Rocco l’avessero data gli angeli della chiesetta dello Spirito Santo della nostra Tricarico, deturpati a causa dell’intonaco scrostato. Capii, non chiesi spiegazioni e recitai a mente questi versi «e cantano la morte del Signore/ solo gli angioli deturpati …» della poesia Per Pasqua alla promessa sposa, che Rocco aveva scritto per Isabella Santangelo, suo lontano amore adolescenziale non ancora sfiorito nel 1947 quando Rocco, aveva 24 anni, da uno sindaco di Tricarico, si impegnò con una poetica promessa.

 

4 Responses to Vecchie cronache e memorie: L’ANGIOLO DETURPATO

  1. Angelo Colangelo ha detto:

    Buongiorno, Antonio.
    Con la tua dotta e interessante rievocazione hai spinto anche me a fare, con un salto di oltre mezzo secolo, un nostalgico viaggio nel passato. Tra il 1968 e il 1972, abitando alla Pignasecca, attraversavo a piedi ogni giorno i luoghi da te citati per raggiungere la sede della Facoltà di Lettere al Rettifilo e m’immergevo in quel contesto di patrimonio urbanistico e varia umanità caratteristici del cuore di Napoli. Era un angolo della città meraviglioso, che è stato anche immortalato in una sua bella lirica da Padre Cilento. Provvederò a mandartela in giornata.
    Ti auguro una buona giornata,
    Angelo Colangelo

    • antonio-martino ha detto:

      Ciao, Angelo e grazie. Ho ricevuto la poesia di padre Cilento. Ai miei tempi – non so ai tuoi – la facoltà di lettere e quella di giurisprudenza erano, una a fianco dell’altra, al primo piano al Rettifilo. In un’aula della facoltà di lettere si tenevano i Lunedì del Gramsci, che frequantavo assiduamente.

  2. Cesare monaco ha detto:

    Caro Tonino,ho riletto con molto piacere il tuo “angolo deturpato” che rinnova in me ricordi di quella Napoli che generazioni di studenti hanno amato e continuano ad amare con infinita nostalgia.
    grazie. con affetto Cesare

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