Vecchie cronache e memorie: LA DISTRIBUZIONE DELLA POSTA
La foto è un’istantanea nel corso di Tricarico di molti, molti anni fa.
In evidenza il postino Pasquale Picerno: Pasquale ‘u pustir o ancora più semplicemente ‘u pustir. Con gesto solenne ed esibito consegna una lettera. Il postino a quei tempi acquietava ansie o comunicava delusioni, e ne aveva consapevolezza espressa con segni solenni o discreti. Due volte al giorno era atteso in tutte o quasi tutte le case del paese.
Appoggiati all’anta della porta di una bottega a fianco della farmacia Biscaglia, sono i fratelli Pancrazio e Peppe Desopo, detto Peppe Stalin. Seduto al loro fianco su una cassa rovesciata, che legge il giornale, sono io. Sono sopravvissuto ai suddetti tre e ho memoria di storie legate alle loro vite, che meriterebbero di essere raccontate.
E non solo storie legate alle vite di Pancrazio e Peppe Desopo. Quante altre storie legate a questa fotografia si potrebbero raccontare.
Ora racconto com’era e cos’era la distribuzione della posta nei tempi passati.
Due volte ogni giorno, mattina e pomeriggio, dopo l’arrivo del postalino dalla stazione, Pasquale passava casa per casa col suo borsone di pelle carico di missive.
Il funzionamento del servizio era efficiente, la corrispondenza era recapitata e consegnata ai destinatari con una sollecitudine e puntualità che negli anni successivi si sono perse. Per fare un esempio: le ultime due lettere di Rocco Scotellaro alla madre e ad Antonio Albanese (per il vero si trattava di una sola busta indirizzata alla madre con un messaggio a lei e uno a Antonio Albanese) furono imbucate da un amico di Rocco alle Poste Centrali di Napoli, piazza Matteotti, la sera del 15 dicembre 1953, poco prima che Rocco morisse, e furono recapitate, da Pasquale, la mattina del 17, quando lo si accompagnava al camposanto.
Alla solita ora, avanti l’ufficio postale nella piazzetta di Monsignore, si radunava la solita piccola folla di partecipi al doppio rito quotidiano della distribuzione della posta. C’era l’attesa di un contatto personale tra il paese e il resto del mondo. Un contatto personale, non quello dato dal giornale, che pochi leggevano, o dalla radio, che pochi possedevano, o dal giornale radio che il caffè Scardillo trasmetteva con l’altoparlante. No: il contatto personale tra un tricaricese (in genere una tricaricese) nel paese e un tricaricese in un qualche angolo del mondo. Si viveva, infatti, nell’attesa di una missiva dal proprio marito fidanzato genitore figlio su uno dei vari fronti delle guerre che si combattevano l’una dietro l’altra, dalla Spagna all’Africa Orientale alla Grecia alla Russia, o dai vari luoghi dell’emigrazione, dal Venezuela all’Argentina all’America ricca alla Svizzera alla Germania alle città del triangolo industriale del Nord. Un ex sindaco di Tricarico, ma non originario di Tricarico, ha fatto parte della guarnigione italiana di stanza a Tien Tsin, in Cina..
La piccola folla radunata nella piazzetta assisteva al recapito della posta in sacchi di tela grezza rigata con una banda rossa e azzurra, scrutava il gonfiore dei sacchi e si predisponeva all’attesa che Pasquale uscisse col borsone gonfio della posta da distribuire come se si aspettasse la fumata bianca o nera di un conclave.
L’attesa si faceva snervante, le operazioni di preparazione della posta si coprivano di mistero suscitato dalla segretezza dei locali dove le operazioni erano effettuate, che solo pochi privilegiati, meno della dita di una mano, avevano potuto vedere. L’ufficio postale per il pubblico era un piccolo locale delimitato da una parete di legno di noce, con la cabina del telefono e tre sportelli. Durante le operazioni di preparazione della posta il servizio al pubblico era sospeso e i tre sportelli erano rigorosamente sbarrati.
I locali interni prendevano luce da finestroni che affacciavano sul giardino di Monsignore, fuori dalla portata d’ogni sguardo. C’era, è vero, una finestra, con grata, che s’affacciava sulla piazzetta di Monsignore, ma essa, schermata da tendine, aveva le imposte quasi sempre accostate e di rado lasciava intravedere un corridoio in penombra e, in fondo, la centrale del telefono e il tavolo dell’alfabeto Morse. Si scorgeva una pizza con una strisciolina di carta arrotolata e una levetta alla cui estremità c’era una punta. L’ufficiale postale, don Michele Lauria, si sedeva al tavolo e, premendo la levetta, a intervalli irregolari, corrispondenti a un punto o a una lineetta, che erano i segni dell’alfabeto Morse, trasmetteva col tipico ticchettio il testo dei telegrammi. Restava invece al suo posto allo sportello quando il ticchettio annunciava la trasmissione di un telegramma in arrivo. Ascoltava il ticchettio e comprendeva il messaggio che gli impulsi elettrici trasmessi dal cavo telegrafico tramettevano; prendeva quindi un modulo telegrafico – giallo o rosso se il telegramma era urgente – e con la sua bella calligrafia, senza bisogno di una verifica coi segni tracciati sulla strisciolina di carta, scriveva il testo del messaggio, incollava e dava incarico all’addetto di recapitarlo urgentemente al destinatario.
In quei locali c’era il centro operativo che connetteva Tricarico con l’Italia e qualche volta col resto del mondo. Lì si veniva a conoscenza dei segreti di tutti: si sapeva chi scriveva, chi telegrafava, chi telefonava, e a chi. Lì si misuravano e confrontavano le risorse finanziarie delle famiglie in depositi postali, buoni del tesoro e pensioni erogate.
Da quei locali, insomma, promanava il terrore che ispira un potere misterioso, da cui ci si difende lasciando fiorire in libertà dicerie pettegolezzi calunnie.
L’attesa di Pasquale pareva sempre troppo lunga e faceva porre puntualmente domande su come mai egli tardasse tanto a uscire, si facevano supposizioni e ci si perdeva in calunniosi pettegolezzi sul rispetto del segreto della corrispondenza. Ogni giorno era uguale al precedente, anche se Pasquale usciva col suo borsone con puntualità cronometrica.
Appena metteva piede nella piazzetta Pasquale si guardava attorno, con rapidi impercettibili cenni lasciava capire chi era inutile che continuasse ad aspettare. La piccola folla cominciava a diradare, i pochi rimasti si stringevano attorno a Pasquale, che, senza guardare, come il pappagallino che becca il biglietto della fortuna, estraeva dal borsone una busta una cartolina e con un ampio e solenne gesto del braccio, sventolandola, la consegnava al destinatario. Poi proseguiva per il suo giro, iniziando dal corso e, sempre seguendo ogni giorno, per due volte, il medesimo percorso, faceva il giro del paese con tale cronometrica regolarità che chi avesse voluto raggiungerlo sapeva esattamente, a quella data ora, dove trovarlo.
La professionalità del postino era unica. Pasquale era insostituibile. E fu infatti per questa singolarità del suo mestiere che egli divenne il consulente elettorale della Democrazia Cristiana di Tricarico, non per fede politica, infatti non era democristiano, ma per non usare una scortesia.
I partiti avevano (e credo abbiano ancora) il diritto di nominare nei seggi elettorali propri rappresentati di lista, i quali avevano il compito principale di annotare il numero corrispondente dell’elettore sulla lista elettorale. A fine mattina, a metà pomeriggio e a chiusura del primo giorno elettorale e a metà del secondo giorno rappresentanti del partito passavano a ritirare i cartelloni e li portavano in un centro operativo, dove si osservava l’andamento delle elezioni e ci si organizzava per recuperare i voti dei ritardatari, che erano o semplicemente da sollecitare o da accompagnare ai seggi perché inabili o da andare a prendere nelle campagne dove si trovavano.
Il problema, che con le conoscenze che solo Pasquale possedeva, era che l’80 per cento degli elettori non erano identificabili per nome e cognome, ma per soprannome, e per una percentuale ancora maggiore era ignoto il nome delle vie. La toponomastica aveva una funzione burocratica ma non era lo strumento che consentisse di individuare in massima parte i luoghi del paese. Un nome e cognome, con l’indicazione del luogo di residenza e del numero civico spesso non diceva niente a nessuno. Solo Pasquale era capace di riconoscerlo a spiegare di chi si trattasse, con l’indicazione del soprannome o di intrecci di parentele e amicizie, e dove si trovasse, con indicazioni ognuna delle quali era un piccola storia paesana.
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Caro Antonio,
purtroppo anche Paolo, figlio di Pasquale e mio caro amico, non c’é più. Bel ricordo anche per me che mi consente di suggerirti che venga, con i tuoi tanti altri ricordi, inserito in una raccolta cartacea che possa trovare spazio con la sua presenza in quella famosa biblioteca di casa la cui utilità in altra occasione ci hai illustrata.
Narrazione bellissima, condivo l’ottima proposta di Langerano