IL TOPINO DI GIULIO DENTE ovvero “Come un tempo girava il mondo”
A fianco del banco di Giulio Dente, in un’ala delle scuole elementari al Palazzo Ducale, sul pavimento, c’era la tana di un topolino. Nessuna meraviglia, era normale, Giulio era addirittura invidiato.
Giulio, come tutti i ragazzi, aveva la tasche piene di molliche di pane. Ci mettevamo larghe fette di pane nella pettorina e nelle tasche, che si riempivano di grandi quantità di molliche.
Con le sue briciole, Giulio si fece amico il topino. Questo sbucava col capo dalla tana e Giulio lo nutriva con le sue briciole. Gli altri alunni non avevano tane di topi nelle vicinanze dei loro banchi e, come ho detto, erano gelosi di questo privilegio di Giulio.
Una volta si fece una questua in classe, per non ricordo quale manifestazione fascista. Il ricavato fu cambiato in una banconota e questa fu rosicchiata da un topo.
– Signor maestro – accusò un compagno, dando sfogo alla sua gelosia – i soldi li ha mangiati il topo di Dente, che è suo amico.
– Il topo di Dente ha mangiato i soldi – disse il maestro – e Dente deve essere punito -. E Giulio si prese le sacramentali bacchettate sulle palme delle mani ben spalancate.
La bacchetta, poggiata sulla cattedra alla destra del maestro, rappresentava la sua autorità e la funzione educatrice della scuola. La sua e la nostra generazione consideravamo sacrosante le bacchettate per la nostra educazione, e non ci passava per la testa che la bacchetta fosse piuttosto uno strumento mortificante e diseducativo e faceva molto male.
Le bacchettate si chiamavano spalmate. Che cosa la bacchetta doveva spalmare sulle mani? Lo compresi in quarta elementare. La frequentavo ad Accettura dove la mia famiglia si era trasferita da qualche mese. Mi ero fatto due compagni: uno naturalmente era accetturese e l’altro napoletano, dimorante temporaneamente ad Accettura per motivi di lavoro del padre. Le nostre parlate, pur cercando di conformarle al dialetto accetturese, risentivano l’influsso dei rispettivi dialetti e mescolavamo parole. Per esempio, per dire all’improvviso dicevamo indifferentemente all’intrassatt (napoletano), all’assacres (palazzese, mio dialetto), alla securdin (accetturese). Non sapevamo che in italiano di dovesse dire all’improvviso ed era male, perché a scuola bisogna parlare in italiano.
Il compagno accetturese pagò le spese di questa ignoranza. Riferendo alla cattedra, avrebbe dovuto dire, per l’appunto, all’improvviso. Non lo sapeva e lo disse, una parola dietro l’altra, nei tre dialetti, apponendo una vocale finale per ingentilirle: all’intrasatto, all’assacresa, alla securdina. Ogni volta spalmate sulle due mani, che si gonfiarono e divennero rosse e se le mise sotto le ascelle per attutire il dolore.
Capii che la bacchetta non spalmava sulle mani la conoscenza dell’italiano e lo dissi al maestro: – Ma se lui non sa come si dice in italiano, mica lo impara con le spalmate -.
E mi presi anch’io una bella razione di spalmate per farmi capire che l’autorità e l’infallibilità del maestro non si mettevano in discussione. Il maestro era come il duce: aveva sempre ragione.
Era scritto anche in piazza a Tricarico, sul cornicione del Palazzo degli Uffici: Mussolini ha sempre ragione.
Il maestro fu richiamato alle armi e mandato a fare la guerra.
La bacchetta rimase lì, sulla cattedra, alla destra della maestrina dall’aria smarrita venuta non ricordo da dove a sostituire il maestro mandato a combattere i nemici del duce, del fascismo, della Patria e di Dio. Le spalmate le dava anche lei, e con rabbia.
Così girava il mondo quando ero bambino. Ma c’erano anche cose buone, che ora non ci sono più. Non dico quali sono per non farmi nemici. Ma chissà! Forse Benigni mi può venire in aiuto.
5 Responses to IL TOPINO DI GIULIO DENTE ovvero “Come un tempo girava il mondo”
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Caro Tonino,
anche questi ricordi arricchiscono la conoscenza del nostro passato e su quali regole si fondava la scuola nei primi decenni del secolo scorso. Anche se bacchetta e ceci per terra li ricordo anch’io. A proposito di Giulio Dente, procugino , essendo mia nonna paterna una Dente, ho avuto modo di conoscerlo in alcune situazioni. Da bambino andavo a casa sua ,ai Cappuccini, a trovare sua madre bravissima maestra, che mi aiutava a studiare. Lo ricordo quando cavalcando su un bel cavallo veniva in piazza Garibaldi. Poi una ventina di anni fa ,mi venne a trovare a Maratea, in un giro in cui ricercava i suoi parenti rimasti in vita. Infine ho avuto con lui uno scambio di mail, su storie e ricostruzioni familiari e tricaricesi convenendo che, quando sarebbe tornato in Italia,( viveva a Ginevra sede dell’attività diplomatica che aveva svolto) ci saremmo rivisti. Incontro che non ci è stato e di lui non ho più notizie da alcuni anni.
Un caro saluto,
Tonino
Con Giulio siamo sempre stati in contatto epistolare prima, telematico dopo. Ci inconntrammo al matrimonio di mio cognato Giovanni De Maria, per il quale lui venne apposta da Londra. Io non lo sapevo, ma lui doveva immaginarlo che ci fossi. Eravamo fianco a fianco e ci ignoravamo, Giovanni ci richiamà alla realtà. Allora accdde un fatto stranissimo a me a lui. Il volto di Giulio comincià a trasfigurasi come in una dissolevenza cinematografica finchè ritornò il suo volto. Ci siamo rivisti a Tricarico nel 2017, dopo abbiamo continuato a tenerci in contatto, quando all’improvviso è cessato. Ho paura a inviargli nna mail o a telefonargli. E ho paura di chiedere alla nipote che vive a Napoli.
Un caro saluto, Tonino
Carissimo Antonio,
quando racconti episodi della tua giovinezza (nota il gergo dell’epoca!) fai scattare in me quei ricordi di vita simiglianti ai tuoi, ma soprattutto mi canticchio la canzoncina degli anni sessanta cantata da Santercole del clan di Celentano, se non ricordo male anche da Sinatra e che ti ripropongo nell’unica parte che ricordo, remember même you, mon amì? (performance poliglotta nell’anno dedicato a Dante!)
Stella d’argento / Che brilli nel ciel /Il tuo splendor mi fa morir di nostalgia / Oh! Quanti ricordi /
Fai rivivere tu / Stella d’argento / Che brilli lassù (nord Italia, a Ferrara!).
La scena: Classe terza, forse quinta elementare, ultima stanza/aula delle tre che si affacciavano verso san Francesco, al piano nobile del Palazzo Ducale di Tricarico, il maestro Settimio Massaioli usava, come strumento educativo/correttivo, una bacchetta di una trentina di centimetri ricavata dal copertone di ruota di camion dal quale sporgevano ben visibili filamenti di sottilissimo acciaio a rinforzar lo spessore della gomma.
Vengo una volta interrogato sulla Polonia e, per meglio farmi ascoltare dalla scolaresca (ero abbastanza bravino) il maestro Massaioli mi fa salire sulla predella al suo lato. Lui aveva il sussidiario davanti a sé aperto proprio sulla pagina della Polonia e io in piedi al suo lato avevo modo di leggere il contenuto della pagina.
Ad un certo punto della mia esposizione, il maestro, accortosi che era troppo fedelmente ripetitiva dello scritto offerto alla mia visione, si é incazzato e mi ha intimato di scendere dalla predella e di andare all’altro lato della cattedra e aprire la mano per ricevere la punizione che meritavo.
Tremando sono andato a lato della cattedra e ho aperto e teso la mano al di sopra della cattedra; il maestro, dall’alto della predella ha vibrato il colpo con il pezzo di gomma ma siccome per la paura ho ritirato a me la mano lui è andato a picchiare la cattedra con il suo polso, facendosi male tanto che a nulla valsero le mie lacrime, la ‘spalmata’ sulla mano come tu la chiami da una divenne tre.
Nella classe non eravamo tutti fifoni, c’era un nostro simpatico amico che riusciva imperterrito, senza lacrimare, a farsi arrossare entrambe le manine forse sufficientemente callose per lavori obbligati pur in tenera età.
Stammi bene e ad onorare il prossimo centenario della morte di Scotellaro mi sto rileggento con più metodo ed ordine il tuo lavoro sulle poesie di Rocco “Con la prima e l’ultima”
Un fraterno abbraccio
Mimmo
Carissimo Antonio, il tuo delizioso racconto mi conduce in un tempo che non ho vissuto e che mi regala profonde emozioni. Grazie!
Grazie a te!