IL RISPETTO PER CHI VIVE UN LUTTO
Oggi 15 giugno Andrea di Consoli nella sua cronaca lucana parla della mancanza di rispetto per il lutto degli altri e ricorda che suo padre, quando c’era un lutto a Fratta o nei dintorni gli impediva di accendere la radio e la televisione per una forma di rispetto per il dolore degli altri.
C’è stato chi ha ricordato che De André ha scritto che il dolore degli altri è un dolore ha metà. Ricordo i lutti dei vicini quando ero ragazzo e la nostra partecipazione non era un dolore a metà, ma un dolore diverso e però totale.
Ho ricordato con viva emozione i ricordi di quelle partecipazioni ai dolori degli altri. Ho ricordato in un commento alla cronaca lucana un epigramma, IL LUTTO, di Rocco Scotellaro e ora ricordo e commento la sua poesia IL MORTO,
Non voglia mai far notte, mai far giorno,
è venuto di piombo il pane al forno.
Cicala canta la canzone spasa,
il tizzone si è spento nella casa.
S’alzano i gridi ringhiera ringhiera:
Giustizia nera, Giustizia nera.
(1951)
La poesia è il racconto del rito del pianto del morto, che comportava saper piangere il morto, recita, sull’eco dell’antica usanza delle prefiche, di cantilene con cui si decantavano le virtù del morto e si imprecava alla morte col grido “giustizia nera, giustizia nera”.
Il poeta dice che la cantilena mortuaria è come un canto di cicala che si spande nell’aria. Immagine che pare imposta da esigenze di rima, volta a introdurre l’immagine reale del fuoco spento nel focolare, che toglie calore alla casa e fuoco al ‘caldarulo’ vuoto.
Tra le carte di Scotellaro è stata trovata una nenia popolare, Na cantata ri mammaranna, con la traduzione in italiano dello stesso Scotellaro, pubblicata, poi, in «Lucania», I, 2, novembre – dicembre 1954, pp. 79-80 con il titolo « Un canto della nonna » e con il corsivo Traduzione da « Na cantata ri mammaranna », nenia del folklore lucano (G.B. Bronzini, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Edizioni Dedalo, Bari 1987, pp. 307-309).
La nenia ha molti motivi, tra cui quello della morte in guerra. (Bella figliola nun fa tanta figli / ca po vene lu re ca si li pigli. ….Nun vole fa cchiò notte e jurne / s’è ‘nchiummate lu pane ‘nta lu forne! / Figli ri mamma soia allu maciddo / nun tengo cchiò capedde ara strazzarme. / Figli ri mamma, figli. / …).
Traduzione (di R.S.): Bella ragazza non fare tanti figli / perché poi viene il Re che se li prende … / Non possa far più notte, né giorno / si è impiombato il pane nel forno. /Figli di mamma sua al macello, / non ho più capelli da strapparmi / Figli di mamma, figli.
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Oltre il dolore che veniva diviso vero.Se moriva un parente stretto,qualcuno di famiglia le scioglieva il tuppo(sciffon)le trecce ed i capelli sciolti.Piangendo e raccontando tutta la vita del defunto si tiravano le chiocche dei capelli e si depositavano sul morto.Dopo il funerale sempre un familiare divideva i capelli li attorcigliava e formava come una corona e così la.pettinavano per alcuni.mesi.cosicché tutti erano a conoscenza che in quella famiglia vi era stato un lutto grave.
Mi ha raccontato un amico greco, originario della Tracia, che il lutto viene vissuto dalla comunità intera che si prende cura della famiglia che ha subito la tragica perdita, le si stringe accanto. Meravigliosa, umana comunione
Era la stessa cosa anche da noi. Si chiamava consolo. Nel prendersi cura della famiglia in lutto c’erano esagerazioni. Forse il consolo meriterebbe di essere raccontato.