MIMMO LUCANO E VASCO IL CAPRAIO
Non so perché, leggendo il post di Andrea Di Consoli sulla sentenza di condanna di Mimmo Lucano (ma forse lo so, so che quando m’imbatto in un problema, mi domando: Che ne pensa Rocco?) sono immediatamente passato a leggere il VII capitolo della parte Terza dell’Uva puttanella dove Rocco Scotellaro, commentando il memoriale di Vasco il capraio, comprende e penetra la contorta psicologia dei carcerati nell’organizzazione della loro difesa e ha modo di esprimere considerazioni personali sulla giustizia.
Rocco dei giudici ha la visione di una classe borghese e privilegiata, figlia della borghesia perbenista lontana dal mondo che egli sente di rappresentare. I giudici studiano i processi dalle nove all’una, quando non hanno gli interrogatori o altre incombenze; all’una vanno a mangiare al ristorante, la sera vanno al cinema. Il padre di Rocco avrebbe voluto per tutto l’oro del mondo che il figlio facesse il giudice, ma Rocco per lo stesso prezzo non avrebbe voluto farlo.
Dei giudici Rocco non ha fiducia. Ecco cosa scrive, riferendosi alla sua situazione personale: «Il mio giudice mi disse: – Dite se è una persecuzione politica, ma datemi le prove. Io lo guardai, un secondo, con l’occhio del suo antenato e con quello di suo figlio. Gli vidi i baffi neri e la fede al dito, le labbra di creta e i suoi occhi scattavano come persiane. Avrei voluto parlargli d’altro, non gli risposi. Seppi poi che disse a un suo amico che io lo guardavo dall’alto in basso. Infatti, lui mi pareva una sveglia enorme su un comodino . Tutti i giudici erano dei pendoloni carichi, le cui lance segnavano il tempo, le ore e i minuti e scoppiavano all’ora voluta dal potere esecutivo».
Siamo al 1950. In Italia da due anni e qualche mese vigeva una Costituzione, che all’art. 27, 2° comma, stabilisce che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva (è lo status di Mimmo Lucano, anche se nessuno più lo sa). E questo giudice conduceva l’interrogatorio di un imputato, che la Costituzione considerava non colpevole, trattandolo, all’opposto, come colpevole e pretendendo che fosse lui a fornire la prova della sua non colpevolezza. E se una legge incostituzionale prevedeva l’arresto obbligatorio per il reato di cui l’imputato era accusato (era questa, legalmente, ma contraria alla Costituzione, la situazione di Scotellaro) il giudice non avrebbe dovuto capire e sapere che non avrebbe dovuto chiedere a Rocco le prove della sua non colpevolezza? Non avrebbe dovuto fare di tutto per penetrare e sciogliere il groviglio della legge in conflitto con la Costituzione? Ma, ahinoi!, dopo più di mezzo secolo cultura e sensibilità non sembrano molto più affinate!
L’imputato quella cultura e quella sensibilità l’aveva.
Per il vero, qualche anno prima Rocco, aveva coltivato un pregiudizio ideologico, che ora, mi pare, finiva col dare un contributo alla maturazione del suo pensiero. Qualche anno prima, come membro della direzione provinciale del partito socialista, si era opposto energicamente alla proposta di denunciare un funzionario del partito che si era impossessato di una somma del partito, trovando scandaloso che si volesse rimettere il caso alla «giustizia borghese».
Il capitolo VII è un intreccio forzoso di due motivi. Una ben riuscita descrizione del carcere sembra fungere da pretesto per riprendere il discorso sulla giustizia. La reazione all’ingiusta detenzione, che si stava protraendo a lungo, fa nascere un’invettiva, trattenuta nell’ambito dello sfogo personale consegnato a una delle pagine meno riuscite. Bello tuttavia l’incipit, che ci consegna la metafora del carcere paragonato a un nido nella chioma del cielo.
Su centosettanta detenuti nel carcere di Matera Scotellaro era il solo che avesse studiato. «Giustizia borghese» era un’espressione fondata sulla realtà. Qual è la realtà di oggi?
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