Angelo COLANGELO – ALIANO E STIGLIANO NEL RISORGIMENTO LUCANO
Nel corso di oltre un secolo e mezzo non si sono mai spente le voci di dissenso contro una visione apologetica del Risorgimento, accreditata dalla storiografia accademica come un “mito intangibile”. A partire dallo storico Giacinto de’ Sivo, allievo di Basilio Puoti e personaggio di spicco del fronte legittimista già nel primo decennio successivo all’unificazione, molti sono stati gli intellettuali, gli storici, i narratori, che con forme e con motivazioni varie hanno rifiutato una versione acritica degli eventi risorgimentali. Fra i tanti basti citare Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti e Antonio Gramsci.
Di coloro che negli anni si sono discostati dalla linea della storiografia accademica non si può, poi, non ricordare il noto sceneggiatore e scrittore Carlo Alianello, che nel trentennio compreso fra il 1942 e il 1972 scrisse “L’Alfiere”, “L’eredità della priora” e “La conquista del Sud”, un trittico di notevoli romanzi storici revisionisti. Più recentemente, nel 2010, il giornalista e saggista Pino Aprile ha rinfocolato le polemiche sull’argomento con la pubblicazione dell’opera “Terroni”, che ha avuto un clamoroso successo e con la quale si è aggiudicato il Premio Letterario “Carlo Levi”.
Nella ricorrenza del 160° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia non vogliamo entrare nel merito della dibattuta questione e preferiamo piuttosto rievocare il coinvolgimento negli eventi risorgimentali di Aliano e di Stigliano. Sono due paesi della provincia di Matera, ubicati il primo in collina in mezzo a un mare di stupefacenti calanchi argillosi, il secondo sul punto più alto della montagna materana, da dove esplora sul versante occidentale le imponenti catene appenniniche, mentre verso oriente allunga lo sguardo fino alla bella ma tormentata città dei due mari.
Aliano così fu descritta in un breve documento risalente al 1832:
«Borgo di Basilicata, distretto di Matera, cantone di Stigliano, situato sopra un’alta roccia, ai cui piedi verso borea scorre il Sauro. Vi si fruisce di una aria saluberrima. Conta circa 2500 abitanti, e sta quasi a 30 miglia a libeccio da Matera,12 a scirocco da Corleto e 6 ad ostro da Stigliano. I suoi dintorni abbondano di cereali, di canape e pascoli».
Proprio in un paese interno lucano non lontano da Aliano, nella Corleto Perticara citata nel documento proposto, Carmine Senise e i fratelli Pietro e Michele Lacava, costituirono il 21 giugno 1860 il Comitato Centrale Lucano, che assunse nell’agosto successivo la guida dell’insurrezione contro i Borbone. Essi, infatti, erano stati a ciò delegati da Giacinto Albini, il «Mazzini lucano» destinato a diventare, dopo l’annessione, Governatore della Basilicata.
Aliano non rimase estranea ai fermenti liberali, anzi ebbe nelle lotte risorgimentali lucane un ruolo non irrilevante. Se ne riscontra una labile traccia anche nelle pagine iniziali del “Cristo si è fermato a Eboli”, quando Carlo Levi, passando in rapida rassegna le persone che a sera amano intrattenersi nella piazzetta, ha modo di presentarci un «vecchio dalla lunga barba bianca che gli scende sul petto», che gli è stato indicato come «Poerio, l’unico resto di un ramo gaglianese della famosa famiglia di patrioti».
La fuggevole evocazione leviana della presenza dei Poerio nel piccolo comune sospeso sulla cresta della collina materana ha solidi riscontri documentali. Già fra i rei di Stato processati dopo la caduta della Repubblica Napoletana, infatti, s’incontra il nome del frate domenicano alianese Pietro Luigi Poerio. In sostanza, però, la partecipazione agli eventi repubblicani fu irrilevante. Molto significativa fu invece, l’attività della Carboneria. Molti furono i dignitari della vendita alianese, di cui fu Gran Maestro Nicola Maria De Leo. Essi presero parte attiva alla rivoluzione del 1821 e furono alla fine schedati negli «Scrutini di Polizia».
Tra loro si segnalò Giovanni Poerio, il quale fu iniziato alla Carboneria durante gli studi di medicina a Napoli, dove ebbe contatti con elementi liberali. Dieci anni dopo essere stato coinvolto nei moti del ’21, prese, però, le distanze dal movimento liberale e ad Aliano, oltre che medico condotto e capo urbano, fu sindaco per tra il 1831 e il 1832, quando gli succedette Nicola Maria Panevino.
Nel 1848 non si ha traccia di nessun Circolo Costituzionale, ma nel 1860 Aliano ritorna sulla scena della storia risorgimentale lucana, collaborando con il sottocentro insurrezionale di Corleto, presieduto da Carmine Maria Senise. Presidente del Comitato cittadino alianese fu Giambattista De Leo, che, nato intorno al 1805, si fece anche promotore di una pubblica colletta a sostegno dell’organizzazione patriottica.
I suoi concittadini versarono nelle casse del Comitato di Corleto la ragguardevole somma di 152 ducati e il 16 agosto 1860 furono in grado di inviare un contingente di 17 patrioti per sostenere le forze insurrezionali. Il drappello, che aveva come portabandiera Domenico Gesualdi, era guidato dallo stesso De Leo e da due suoi assistenti, il sergente Giambattista Manzone e il caporale Nunzio Carbone.
Aliano, insomma, non rimase esclusa dagli eventi storici del Risorgimento, anche se la sua partecipazione rappresentò un fenomeno piuttosto elitario. Ne furono coinvolti perlopiù esponenti della piccola borghesia locale, mentre i contadini e i ceti sociali più umili ne furono quasi del tutto inconsapevoli ed estranei, o rimasero comunque indifferenti.
Non molto dissimile si rivela l’esperienza storica vissuta nella vicina Stigliano, se si esclude il fatto che qui molto più rilevante e significativa fu la partecipazione agli eventi che portarono alla proclamazione e alla caduta della Repubblica Napolitana.
Nel 1799, come è noto, sulla scia della rivoluzione del 1789 i Francesi occuparono Napoli. Dopo una vera e propria guerra civile fra i giacobini filofrancesi e i lazzari filoborbonici, in cui perse la vita anche il giovane studente lucano Francesco Palomba, i rivoluzionari proclamarono la nascita della Repubblica Napolitana. E fu proprio il lucano Nicola Palomba di Avigliano, sacerdote e zio del giovane ucciso il giorno precedente dai lazzari, che il 23 gennaio accorse per primo dalla collina di San Martino e a Castelnovo issò la bandiera del tricolore blu, rossa e gialla, che sanciva la vittoria degli insorti.
La Repubblica, però, ebbe vita breve. Dopo soli cinque mesi, l’Esercito della Santa Fede, che era guidato dal cardinale Ruffo e annoverava nelle sue file famosi briganti come Michele Arcangelo Pezza di Itri, detto Fra’ Diavolo, Sciarpa, al secolo Gerardo Curcio di Polla, e Gaetano Mammone di Sora, riconquistò le province della Calabria, della Puglia e della Basilicata. Nel mese di giugno con l’aiuto delle forze inglesi poté così impossessarsi di Napoli e dar vita alla Restaurazione borbonica.
Dopoché il re Ferdinando IV ebbe ripreso il potere, iniziò una durissima repressione e, sottoposti a processi sommari, i nemici della causa borbonica, i cosiddetti rei di Stato, subirono pesanti condanne. Solo a Napoli di oltre 8000 persone incarcerate ben 124 furono giustiziate e 222 condannate all’ergastolo. Altri furono costretti a prendere la via dell’esilio. Non a torto Giustino Fortunato parlò di una vera e propria “ecatombe”.
Tra le vittime, come è noto, ci fu Francesco Mario Pagano, il brillante letterato, filosofo e giurista lucano di Brienza, soprannominato il “Platone di Napoli”. Pagano, che da tempo nutriva idee repubblicane, fu uomo di spicco della Rivoluzione. Oltre a dare un contribuito significativo alla stesura della costituzione repubblicana, fu uno dei venti componenti del Governo provvisorio presieduto da Carlo Lauberg. Processato in maniera sbrigativa, non ostanti gli autorevoli interventi a suo favore dello zar e di altri regnanti europei, il brillante avvocato e giurista lucano fu giustiziato, il 29 ottobre, in Piazza Mercato. Aveva poco più di cinquant’anni.
Riuscì invece a evadere dal carcere di Sant’Elmo Giustino Fortunato senior, il fratello maggiore di Anselmo, nonno del grande meridionalista. Rifugiatosi nella sua casa di Moliterno, sarà poi graziato dopo la pace siglata fra i Francesi e i Borbone e diventerà Primo Ministro del Regno delle Due Sicilie a cavallo degli anni Cinquanta dell’800.
Dopo la proclamazione della Repubblica Napolitana, tra i centri lucani che innalzarono l’albero della libertà, simbolo dell’ideologia liberale e repubblicana, vi fu anche Stigliano, il comune che nel nuovo assetto amministrativo rappresentava l’undicesimo dei dodici Cantoni in cui era stato suddiviso il Dipartimento del Bradano. Gli eventi tumultuosi, che segnarono il tramonto del XVIII secolo nell’Italia meridionale, riempiono molte significative pagine nel libro della storia stiglianese. Sono pagine dense e drammatiche, le quali attestano che in quello scorcio finale del Settecento ben presto l’atmosfera esaltante dell’epos fu funestata dall’aria tempestosa della tragedia.
A Stigliano teatro principale delle manifestazioni popolari fu il largo della Nunziata, antistante l’omonima Cappella cinquecentesca, che sarebbe diventata Piazza del Plebiscito nei primi anni dell’Unità d’Italia e successivamente Piazza Guglielmo Marconi in epoca fascista. In questo spazio fu anche piantato l’albero della libertà in un clima entusiastico di festa popolare. La grande adunanza di popolo per molte ore fu allietata da suoni, canti e balli, alimentati dalla chitarra di Giuseppe Maffeo e dal violino di Giovanni Battista Sassone.
Ben presto, però, le vicende di quel 10 febbraio, destinato a rimanere scolpito negli annali della storia stiglianese, presero una piega inaspettata e violenta. Istigati dall’avvocato don Nicola Correale, che fin dal primo momento era stato uno dei maggiori fautori della rivoluzione, i popolani si diressero in gran massa nel vicino Largo Castello, dove era il palazzo di Nicola Rasole.
Figlio di Ottaviano e di Ippolita Baione, era questi un galantuomo quarantottenne. Facoltoso proprietario terriero, lo si accusava di essersi opposto sette anni prima alla quotizzazione delle terre demaniali concesse in colonia alla sua famiglia e di essere ora contrario alla municipalità repubblicana appena costituita.
Come attesta un documento dell’epoca, i rivoltosi «con armi da fuoco ed altri strumenti» diedero l’assalto al palazzo, sfondarono il portone, divelsero le finestre e fecero irruzione sparando «vari reiterati colpi di schioppo». Insomma, con grande maestria emularono le mirabili gesta della folla di manzoniana memoria, che oltre un secolo e mezzo prima aveva dato l’assalto al Forno delle Grucce. Dopo alcune ore portarono a buon fine la sciagurata opera intrapresa. Le persone che si trovavano in casa, colte di sorpresa e paralizzate dalla paura, non ebbero alcuna possibilità di opporre una sia pur minima forma di resistenza.
Prima vittima fu una donna, «Lucia Guarini della Terra di Sant’Arcangelo serva di detto Rasole». Il padrone di casa tentò di scampare alla morte, scappando trafelato a nascondersi su nel soffitto. Ma il suo tentativo fu vano. Appena i più esagitati, dopo aver perlustrato la casa, lo trovarono, rannicchiato e tremante in un angolo buio di uno stanzone, partì una rapida e intensa scarica di schioppettate. Un colpo lo raggiunse in pieno petto e lo mandò all’altro mondo, senza dargli neppure il tempo di raccomandarsi l’anima a Dio.
Dopo di lui furono assassinati tre suoi foresi, Giovanni Bellotta di Laurenzana, Tommaso Franciosa e Angelo Antonio Locati di Montalbano Jonico. Particolarmente efferato fu l’assassinio del primo. Ucciso a colpi di accetta, il suo corpo subì orribili sevizie da parte di Pietro Cacciatore, detto “Balligione”. Costui, infatti, per sanare l’offesa, che lui sosteneva la sorella avesse subito da parte di uno dei servi del Rasole, squartò il colpevole «come un porco qual’era» e, dopo averlo evirato, ne «sparse le cervella in pasto ai corvi». Le salme dei cinque malcapitati furono tutte sepolte in Santa Maria la Nova, la chiesa che sarà poi chiamata Convento di Sant’Antonio.
Ai fatti del 10 febbraio seguì una dura repressione, con il deferimento al Tribunale Militare di Basilicata di ben 152 cittadini, accusati di sollevazione popolare «per la piantagione dell’albero e l’ellizione della Municipalità». Ben trenta furono i condannati, la maggior parte a «tre anni di esportazione fuori i Reali Domini». Tra loro, oltre a Pietro Cacciatore, va ricordato Giuseppe Alfano, soprannominato “figlio di Mezzomonaco”, accusato di essere un disertore e di aver ucciso Nicola Rasole.
Correale, Maffeo, Sassone e altri due borghesi, invece, furono assolti. In pratica, al processo pagarono solo i popolani e la fecero franca i galantuomini, che avevano fomentato l’insurrezione ed erano i responsabili morali della strage di Palazzo Rasole. Ma ciò non può meravigliare più di tanto. Da che mondo è mondo, purtroppo, questa sembra essere una costante della storia umana. La storiografia giudiziaria, antica e recente, dell’Italia ne è solo una dolorosa conferma.
Caduta l’effimera Repubblica Napolitana, ai più nota come Repubblica Partenopea, e dopo il Congresso di Vienna si aprì un nuovo scenario politico, contrassegnato dai moti insurrezionali, con cui in varie fasi si tentò un’opposizione alla restaurazione dell’assolutismo. Come in gran parte della penisola, si assisté alla nascita prima della Carboneria e poi della “Giovine Italia”, che era sorta nel 1831 a Marsiglia per opera di Giuseppe Mazzini.
Tra le 88 associazioni carbonare lucane, formate perlopiù da studenti e professionisti, che cospiravano contro il regime borbonico, si segnalò la vendita di Calvello, cui era stato dato il nome di “Lega Europea”. Ne fu protagonista un medico, Carlo Mazziotta, che organizzò una notevole attività cospiratoria anche nella vicina Laurenzana, dove si erano nascosti, per sfuggire alle persecuzioni del governo borbonico, Giuseppe e Francesco Venita, due fratelli affiliati alla vendita di Ferrandina.
Fu proprio dopo la fuga di costoro che, scoppiati duri conflitti con la forza pubblica, furono arrestati tutti i loro complici. I due fuggiaschi, invece, furono sorpresi e catturati nel bosco di Pietrapertosa. Dalla Corte Marziale Asburgica, radunatasi nel castello di Calvello, furono comminate ben tredici condanne a morte. Tra i condannati c’erano lo stesso Mazziotta e i fratelli Venita, che il 13 marzo 1822 furono fucilati poco fuori del paese.
Agli eventi risorgimentali del 1821 non mancarono di partecipare i liberali stiglianesi. Tra loro vi fu Ottaviano Rasole, che aveva solo 19 anni quando il padre Nicola, come si è detto, fu barbaramente assassinato nella sua casa il 10 febbraio del 1799. Ottaviano a Montalbano Jonico, dopo aver fondato nel 1812 una loggia massonica, diventò nel 1817 Gran Maestro della Vendita Carbonara e partecipò attivamente ai moti del 1821.
Ma tra i patrioti stiglianesi di quegli anni si segnala in particolare la figura di Pietro Laviani che, nato il 18 marzo 1778, fu Gran Maestro della Vendita di Stigliano. Ufficiale dei legionari, il 7 marzo 1821 prese parte alla battaglia di Rieti-Antrodoco, dove le truppe guidate da Guglielmo Pepe si scontrarono con l’esercito austriaco comandato dal generale Frimont, uscendone sconfitte. Ritornato nel suo paese natale, Pietro Laviani collaborò con il carbonaro Giuseppe Venita di Ferrandina. Arrestato durante i moti carbonari del 1822, fu rinchiuso nelle carceri di Potenza, dove morì, mentre era ancora in attesa di giudizio.
Alla stessa illustre famiglia apparteneva un altro Pietro, nato il 23 aprile1817. Fu egli medico e ufficiale della Guardia Nazionale, fece parte del corpo sanitario insurrezionale e segui Garibaldi al Volturno.
Alessandro Simeone, invece, che era nato a Stigliano nel 1813, mentre nel 1848 esercitava la carica di sindaco, sostenne che la Costituzione concessa da Ferdinando II favoriva solo i galantuomini e incitò alla sollevazione i contadini, invitandoli a non pagare le imposte e ad occupare i terreni demaniali. Si ritrovò, in sostanza, a condividere le posizioni di Emilio Maffei, il sacerdote potentino, che aveva promosso in Basilicata la diffusione della “Setta dell’Unità Italiana”, la società latomistica nata nel 1848 sulla scia della “Giovine Italia” a Napoli ad opera di Luigi Settembrini e Silvio Spaventa.
Si giunge così all’insurrezione del 1860, che ebbe inizio a Corleto Perticara, divenuto centro operativo dopoché Montemurro, capoluogo del Risorgimento lucano e patria di Nicola e Giacinto Albino, era stata semidistrutta dal devastante terremoto del 1857. Da Corleto il 16 agosto mosse verso Potenza la prima colonna della “Brigata Lucana” agli ordini di Giuseppe Lacava. Da Stigliano, che all’epoca contava poco meno di 5000 abitanti, partì un contingente di 58 volontari, guidato dall’agrimensore Giovanbattista Maglietta. Tra loro vi erano due sacerdoti, Giuseppe Micucci e Gennaro Diruggiero.
A distanza di 160 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, oggi persistono forti divergenze di opinioni sulle modalità che condussero all’unificazione della penisola attraverso le lotte risorgimentali. E aspre sono le polemiche sulle prevaricazioni del Nord sul Sud, che sarebbe stato vittima di una storia negata. Né sono servite le tragiche vicende di due guerre mondiali e della Resistenza a unificare realmente il Paese, rafforzando la coesione sociale e riducendo lo storico divario economico fra le varie aree geografiche. Il progetto di nazione e di democrazia repubblicana, perciò, in Italia è tuttora incompiuto.
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