I NOSTRI CUGINI MAROCCHINI
La lettera lucana di oggi di Andrea De Consoli mi ha sorpreso. Non avrei mai immaginato che chiamassimo cugini i marocchini, segno, dice giustamente Di Consoli, di grande calore e di solidarietà umana e mi ha fatto ricordare quanta inimicizia ci fosse ai miei tempi tra i nostri paesi e tra i rioni di ciascun paese. Non solo. Di questa inimicizia – odio, direi piuttosto – ho rilasciato diverse testimonianze sul mio blog, che mi hanno messo in difficoltà nella scelta.
Forse perché è un caso divertente e semplice e in un qualche modo allude al cattivo rapporto tra i vari rioni di Tricarico – tra la Piazza e la Saracena – ho scelto un racconto di Rocco Scotellaro, Salvatore. Per ora, forse tornerò con altri casi. Qualcuno incredibile.
Salvatore è un compagno di Rocco. Più grande di Rocco non necessariamente di età – erano tutti più grandi di statura e di muscoli i compagni di Rocco, che dei compagni più grandi e grossi era capo indiscusso. Non sapeva fare a botte – scrive Rocco in questo stesso racconto – ma era specialista dei lucchetti e delle serrature. E sembra darcene la prova quando, raccontando che si sentì sicuro toccando il catenaccio della porta di una cantina, si tolse la cinghia e cominciò a manovrare con l’ardiglione nella tacca del catenaccio, adoperando un vocabolo, ardiglione appunto, d’incerto etimo greco o provenzale sconosciuto al linguaggio corrente, per dire che adoperò il ferruzzo appuntato nella fibbia della cinghia.
In questo racconto, al contrario, non è Rocco ma Salvatore che sembra condurre il gioco – un gioco da bulli, un’incursione nella Saracena, dove Salvatore si doveva appostare, e Rocco doveva coprirlo, per toccare una ragazza che aveva già le menne. Rocco non era un bullo, egli era il capitano che guidava i giochi di strada dei ragazzi del vicinato, il più bravo a sganciare da una spirale di ferro una farfalla ritagliata da un pezzo di latta, che andava a colpire una rondine, ferendola o uccidendola (si legga la poesia Storiella del vicinato). Qui si fa coinvolgere da Salvatore in una comica avventura da puttaniere in erba e in una sfida in terra nemica, con un ruolo subalterno, dove gli tocca di stare a guardare.
“ Eravamo stranieri, io e Salvatore, nella Saracena – racconta -, perciò ci chiamarono dietro «Michelasciutti, imprenaove» che erano i nomignoli in voga e noi ci stemmo zitti e quelli aspettavano che ci voltassimo. “
Straniero significava nemico. Era l’ethos del tempo: grassanesi contro tricaricesi; accetturesi contro sanmauresi, ecc.; saracenari e ravatanari contro chiazzaiulii, ecc. Entrare in un altro quartiere era una provocazione, una dichiarazione di guerra. Il rischio più grosso lo correvano i “chiazzaiuli” i ragazzi più odiati e derisi in tutti gli altri quartieri, specialmente nella Rabata e nella Saracena, dove ai “chiazzaiuli” era rigorosamente proibito entrare.
Rocco e Salvatore, due “chiazzaiuli, si recano nella Saracena come fauni alla rincorsa di ragazze. Rocco non tarda ad accorgersi che il gioco si fa pericoloso e vorrebbe andare via. Non ci riesce, abbrancato viene buttato a terra e pestato, senza poter respirare. Una donna tenta di sollevarlo e, allora, Rocco ha il suo comico momento erotico.
“ Fui pestato, oramai non mi difendevo, cercavo un buco in terra per respirare.
– L’affogate, – disse una voce di donna – fatela finita.
Fu lei che mi toccò, la padrona di casa, e io nel rimettermi in ginocchio le alzavo la veste col capo, sicché mi sentii un altra sua botta sul collo:
– Eh, eh! Che sei una gallina? Alzati.
Vidi le scarpe sue e le calze e le mutande bianche, lunghe come i pantaloni degli uomini e, con tutta l’aria che ora avevo per respirare, mi sentivo morto e volevo stare un altro poco disteso con la bocca a terra, la gonna mi girava attorno e la voce diceva:
– A chi sei figlio? Dove stai di casa?
Dovette piegarsi su me e io voltai da dove la gonna si aprì per rivedere le due gambe di mutande, che rassomigliavano a quelle delle bambole. “
Situazioni comiche, nascondigli, ricerca dell’eros o di una emozione qualsiasi: questo, ancora, è Salvatore, che, come gli altri racconti di Scotellaro, forse aveva bisogno di maturazione, forse Rocco ci avrebbe lavorato ancora, ma si legge con piacere e interesse.
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