Secondo la leggenda il cigno resterebbe muto per tutta la vita e in punto di morte troverebbe la voce e canterebbe una struggente e bellissima canzone. Il cigno, simbolo di purezza, innocenza, saggezza e solitudine, in questo racconto – uno dei racconti rari o spersi di Rocco Scotellaro – viene assunto come simbolo di morte, che pure simboleggia.

Rocco Scotellaro, verosimilmente, negli anni 1946-48, si impegnòto a intervalli nella scrittura di questo racconto, certamente ispirato a una tragedia, avvenuta il 3 ottobre 1946, causata dalle esalazioni di acido etilico per la fermentazione del mosto. Perse la vita un giovane padre di famiglia, che lasciava cinque figli.  Avvertito mentre era intento ad eseguire lavori domestici, dell’imprudenza di un giovanissimo fratello, che si era recato con amici in una vicina cantina, dove fermentava il mosto, senza alcuna protezione, accorse immediatamente per soccorrerlo, ma fu l’unico, per una serie di disgraziate circostanze, che perse la vita. La tragedia è raccontata nella parte finale del racconto e solo questa ora riporto.

L’altro giorno è morto un contadino asfissiato nella tina dove rivoltava la vinaccia impregnata di mosto.
Da una finestra bassa, accesa per tutta la notte, è fuggito lo spirito del contadino morto sulla collina dei cipressi, dove si nascondono le anime dei padri, delle madri, dei figli, dei fratelli, delle sorelle e dei compari.
Con la maschera antigas un compagno gli attaccò la corda ai piedi e gli altri tirarono forte, sulla stradetta buia, il corpo esangue.
-Come si muore – qualcuno disse – qui da noi, qualche volta da fessi.
Quello che succede, dopo l’ultimo respiro, è normale. Ti caricano su quattro spalle e ti seguono, mandria dispersa, i conoscenti. Quattro passi svelti per accompagnare una bara: una passeggiata che fa pensare all’inutilità della vita, all’inutilità anche della morte, all’inutilità di noi stessi.
La stretta di mano al superstite significa: -Devi fare da solo, curvare il groppone ancor più, fare due zappate alla volta, una per conto di chi ti ha lasciato.
Cresce la barba e significa appunto che il superstite lavora per due, che non ha tempo per ritornare il sabato sera a sbarbarsi.
E l’uomo, noi uomini che riguardiamo le vicende di ottobre varcato, dettiamo la nostra mozione da incidere sulla lapide “A X… Z. . ., morto e non voleva morire, vissuto e non voleva vivere”.

A Tricarico il cigno aveva già cantato a settembre del 1943. Che mi risulti la tragedia di quel canto non su pagine di libri o fogli di riviste l’ho raccontata solo io. Domani la racconterò di nuovo.

 

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