BUON GIORNO, con una bella tazzulella di caffè
NON E’ SCRITTO DI MIO PUGNO QUESTO BUONGIORNO, MA NON SO RICORDARE CHI SIA L’AUTORE. MI SCUSERA’ E CONVERRA’ CON ME CHE NE E’ VALSA LA PENA
«Nero come il diavolo. Caldo come l’inferno. Puro come un angelo. Dolce come l’amore». Così voleva il suo caffè Talleyrand, che lo faceva servire in brocche d’oro. A chi lo metteva in guardia contro quella droga, affermatasi nel Seicento, replicava: fa digerire, non intorbida la mente, riattiva la circolazione e fa dormire bene.
Del resto Napoleone non riusciva a fare a meno di quel «liquore intellettuale», anche se gli bruciava lo stomaco: «Il caffè forte mi resuscita. Mi procura un calore, una strana consunzione, un dolore piacevole. Preferisco soffrire che non sentire».
Ben prima di loro l’Encyclopédie, il monumento ideologico dell’Illuminismo, rilevava le doti di quel liquido scuro in grado di «rallegrare la mente, renderla più pronta al lavoro, svagarla e dissiparne i dispiaceri». Voltaire ne consumava quantità esagerate, imitato da Rousseau che lo correggeva con poco latte, e da Diderot che andava ogni mattina a prenderne una tazza al Café de la Régence. Non a caso Pietro Verri aveva intitolato «Il Caffè» il giornale da lui fondato, destinato a scuotere dal torpore le coscienze dei lombardi, come l’omonima bevanda che «ravviva le attività intellettuali con la sua virtù risvegliativa degli spiriti animati». Durante la Rivoluzione francese i caffè erano diventati una sorta di club, uno statuto che avrebbero da allora sempre conservato. Quell’eccitante animava le discussioni e stimolava la creatività. Nel Caffè Greco i futuristi italiani si erano confrontati, nel 1919, con Picasso e Cocteau. Al Gambrinus, D’Annunzio, preso dalla sua eloquenza, dimenticava regolarmente di pagare il conto. Al Caffè San Marco si incrociavano Svevo e Joyce. Alla Pasticceria Mazzara, Tomasi di Lampedusa leggeva e scriveva. Un giorno un avventore gli chiese se era mai esistito un pittore chiamato Toulouse-Lautrec. «Non so, devo verificare» rispose Lampedusa. L’indomani annunciò all’uomo: «No, non è mai esistito».
Solo il caffè aveva tenuto sveglio Balzac nel suo ininterrotto lavoro. Lo scrittore usava una miscela di tre diverse qualità, comprate in altrettanti negozi. Teneva sempre pronta sulla scrivania la celebre caffettiera di porcellana con l’abusivo stemma dei Balzac d’Entrague e il “fatale motto”: giorno e notte. Si dice che, per scrivere la Commedia umana, avesse bevuto circa cinquantamila tazze. Nel suo Trattato sugli eccitanti moderni, lo esalta: «Il caffè mette in moto il sangue, ne fa sgorgare gli spiriti motori, caccia il sonno e consente di utilizzare un po’ più a lungo le facoltà cerebrali». Stendhal, accusato dai suoi nemici di prendere il caffè «per avere del genio», doveva in realtà berne di rado, pena dolorosi attacchi di nevralgia e bruciori vari. Del resto anche Goethe, che lo apprezzava molto, era stato costretto a misurarselo.
Non si poteva dire lo stesso di Proust, che viveva di caffè bollente. Poteva provenire solo da un certo negozio, da cui uscivano anche il filtro e il vassoietto. «Era – ricorda la sua cameriera – un vero e proprio rito. Si riempiva il filtro di caffè macinato molto fine, e per ottenere l’estratto che voleva Monsieur Proust bisognava che l’acqua passasse lentamente, mentre il filtro, lo si teneva a bagnomaria. C’era infine il latte. Veniva portato ogni mattina da una latteria del quartiere: e, come il caffè, doveva esser fresco». Una sera per combattere l’asma Proust si era bevuto 17 tazzine, un numero calcolato per avere il giusto dosaggio di caffeina.
A Istanbul, Loti si era innamorato dei caffè di Galata. Nugoli di camerieri s’affollavano nel fumo odoroso dei narghilé, portando minuscole tazzine di caffè ai clienti affondati nei comodi divani di velluto rosso.
Molti scrittori lo preferivano corretto. Quando Peggy Guggenheim scoprì il tradimento di Beckett, lui si scusò: il sesso senza amore era come il caffè senza brandy. Per non parlare del “caffè dublinese” amato da Joyce, eccellente, secondo Gertrude Stein, per conversare dopo cena: versare un decilitro di whisky irlandese nel caffè nero e aggiungere cinquanta grammi di panna. La stessa che Marinetti mescolava, nel caffè, al cioccolato e al peperoncino in polvere. Apollinaire aveva appena i due soldi necessari per un petit noir. Ma Modigliani, anche più povero, lo abbinava all’hascisc, per esaltarlo. Più sobri, Sartre e Beauvoir scrivevano interi pomeriggi davanti a una tazzina di caffè nei celebri locali di Saint-Germain. Per i Woolf il caffè era un rito. Ogni mattina Leonard lo preparava di persona e lo portava a Virginia alle otto.
Anche la giornata di Nick Hornby inizia con il rito del caffè, della sigaretta e di internet. Per Tarantino è strettamente legato al lavoro: andarsi a prendere una tazza di caffè è un ottimo modo per fare un’interruzione.
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Bellissimo! Manca solo Luciano De Crescenzo:
“Vi siete mai chiesti cos’è il caffè? Il caffè è una scusa. Una scusa per dire a un amico che gli vuoi bene”.
Grazie. Conoscevo questa battuta di De Crescenzo, ma non ptevo citarla, perché la carrellata di personaggi non è mia. Ma forse, a ripensarci, avrei potuto.