IL CAVALIERE E LA MORTE
PENULTIMO ROMANZO DI LEONARDO SCIACIA

Ho riletto A futura memoria(se la memoria ha un futuro) di Leonardo Sciascia nell’originaria edizione dei «Saggi Tascabili» della Bompiani. La prefazione, datata novembre 1989, recita nel finale « Questo libro raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia e della mafia. Spero che venga letto con serenità ». Sciascia morì improvvisamente il giorno 20 di quello stesso novembre 1989. Sono 31 articoli pubblicati sul Corriere della Sera, L’espresso, La Stampa, Il Globo, Panorama, scorsi a volo d’uccello, guardandomi bene dal reimmergermi in quel clima; ad essi  segue una Cronologia a cura di Claude Ambroise, un excursus della vita dello scrittore siciliano dalla nascita alla morte articolato in otto periodi significativi della sua opera, che si sviluppa in 33 pagine.

Sulla prima pagina di un quaderno Sciascia, scolaro delle elementari, scrisse in bella calligrafia: “Autore: Leonardo Sciascia”.

« Il 19 luglio (1987) – si legge nell’ultimo periodo della Cronologia – il Corriere della  Serapubblica una lunga intervista allo scrittore a cura di Domenico Porzio sulla vecchiaia: « uno dei piaceri della mia vecchiaia è quello di rileggere: prendo un libro letto a trent’anni, di cui ricordo qualcosa che mi aveva affascinato, e scopro una quantità di cose che non ricordavo più ». Nel Cruciverba (Del rileggere ) lo stesso pensiero: « La gioia del rileggere è più luminosa di quella del leggere. E si potrebbe arrivare a un paradosso: che a rileggere per tutta la vita lo stesso libro si conseguirebbe maggiore felicità che a leggere una intera biblioteca ».

Non  cercavo gioia nel rileggere il motto ironico di Sciascia sulle “catene leggere” del mieloma plurimo: ero mosso da mera curiosità; la curiosità s’è affievolita spenta; ho capito quanto fosse stupito pensare che Sciascia gli avesse dato dignità di stampa; l’aveva scritto verosimilmente in una delle quasi quotidiane lettere a Mario La Cava, l’amico scrittore di Bovalino.

Ambroise racconta nelle ultime pagine della Cronologia che Sciascia da alcuni anni è malato, « Come ‘la salute di Montaigne’, ‘la malattia di Sciascia’ potrebbe diventare una formula critica. Trascorre l’estate dell’88 nel Friuli dove scrive Il cavaliere e la morte …».

Il cavaliere e la morte si apre con un’epigrafe tratta dalle Sette storie gotiche di Karen Bixen, che ribadisce l’antico adagio in vino veritas (Un vecchio vescovo danese, ricordo, mi disse una volta che ci sono molte vie per giungere alla verità, e che il Borgogna è una delle tante). Il titolo completo dell’opera recita Il cavaliere e la morte – Sotie.
Le soties erano testi di carattere satirico-burlesco, i cui protagonisti – tra XV e XVI secolo – erano abbigliati col costume tradizionale dei buffoni (giallo e verde), con berretti con le orecchie d’asino e campanelli pendenti dalle gambe. Il genere era assimilabile a quello della farsa, ma comportava maggiori riferimenti all’attualità: tramite tali rappresentazioni teatrali, gli autori riuscivano impunemente a criticare la situazione politica o religiosa del tempo, mascherandola sotto il velame di allegorie, poi non troppo oscure. Quello che, in effetti, ha fatto anche Sciascia. (Quanto manca uno Sciascia in questi giorni della ricorrenza del Trentennale di Mani Pulite e la rappresentazione di una sua sotie !).

Il titolo del libro è ispirato a una incisione su lastra di rame di Albrecht Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo. Sciascia aveva acquistata l’acquaforte molti anni prima ad una asta. A pagina 11 del romanzo racconta che l’acquista Vice, il protagonista del romanzo («Vice racconta come  era venuto in possesso della preziosa incisione, finendo per pagarla a un’asta, nella concitazione  della competizione con altri potenziali acquirenti, una somma di danaro pari a due dei suoi stipendi,  il che gli aveva suscitato «un certo sgomento»).

         La vedeva nitida, in ogni particolare, in ogni segno, quasi il disegno rinascesse con la stessa precisione e meticolosità con cui, nell’anno 1513, Albrecht Dürer lo aveva inciso.Questo fu in realtà l’indizio di una passione durata una vita, che lo aveva portato a interessarsi di una nutrita schiera di incisori. Un anno prima di morire, ormai tormentato da un male incurabile che lo pone a una distanza siderale dal ‘contesto’, Leonardo Sciascia si mette davanti alla macchina da scrivere e dà vita al suo penultimo romanzo. A ispirare Il cavaliere e la morte è proprio l’acquaforte di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, che lo scrittore tiene nella sua casa.

Uno dei passi più significativi del romanzo è quello
in cui si constata, con amara rassegnazione, che ormai «il Diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui» (p. 70).

L’incisione è ricca di figure e simboli. Un cavaliere Cinquecentesco avanza sul suo cavallo, ha un aspetto fiero; dietro di lui si intravede la morte a cavallo di un ronzino, magro e sofferente; si rivolge verso il cavaliere che però sembra non vederla. Dietro la groppa del cavallo compare il diavolo. Il diavolo è stanco e per questo Sciascia lo ha eliminato dal proprio titolo, nel quale restano a contendere da un lato una Morte «stanca» e «mendicante», e dall’altro un Cavaliere «corazzato» e «fermo».

Pochi personaggi del romanzo hanno un nome e un cognome; per lo più sono identificati con titoli. Il protagonista principale è Il Vice, in cui si riflette molto di Sciascia. Vice commissario di Polizia chiamato a indagare sul delitto, è un uomo del Sud, nostalgico della sua terra d’origine. Ha girato molti commissariati nella vita. E’ un appassionato d’arte e in ogni ufficio dove ha lavorato si è sempre portato appresso un quadro di Durer intitolato “Il cavaliere, la morte e il diavolo”. Questa opera è fonte di continua riflessione sui fatti che lo circondano. E’ malato e gran fumatore.

Il Capo è il commissario, superiore di Vice. E’ un poliziotto onesto, ma troppo timoroso e subordinato ai poteri forti.

L’avvocato Sandoz è la vittima. La sera prima aveva partecipato a una cena di gala, dove era presente l’amico Cesare Aurispa, Presidente delle Industrie Riunite. un magnate dell’alta finanza, molto rispettato e molto temuto. Aurispa è il primo sospettato. Durante la serata, c’era stata una specie di sfida, la conquista della Signora De Matis, e uno scambio di biglietti. In quello ricevuto da Sandoz, scritto da Aurispa, c’è scritto “Io ti ucciderò”. Aurispa spiega che si tratta solo di una burla. Il Capo, timoroso di “disturbare” l’ambiente altolocato e potente dell’alta società cittadina, gli crede e elimina Aurispa dai sospettati. Il Vice invece è di altro avviso e continua a indagare da solo, interrogando anche la Signora De Matis e la signora Zorni.

Sulla scena dell’indagine appaiono i Figli dell’89, una fantomatica associazione segreta atta a rivoluzionare e rovesciare il sistema costituito. Al Capo non pare vero che ci sia una pista diversa da quella del Presidente Aurispa, troppo pericolosa  per la sua carriera. Quando un testimone sordomuto si dice sicuro di aver riconosciuto in un giovane dentro una cabina telefonica un probabile Figlio dell’89 la Polizia pare non avere più dubbi.

Il Vice, invece, con l’aiuto del vecchio amico Giovanni Rieti, continua la sua indagine privata, nonostante i richiami del Capo. Ha un cancro, è gran fumatore, sta morendo e non ha paura di compromettersi. Gli importa solo scoprire la verità.

Il luogo di ambientazione del romanzo non è definito e manca anche una collocazione temporale precisa. Non si fanno nomi di località o di regioni particolari. Siamo comunque in Italia settentrionale. Il Vice, protagonista del romanzo, rimpiange la sua regione dell’origine, al Sud. La tematica trattata è una denuncia politica e di costume. Il potere economico è in mano a una ristretta cerchia di industriali e faccendieri, che amministrano di fatto la città. Le istituzioni sono soggiogate a questo potere e molto spesso si trovano a scendere a compromessi. Piuttosto che turbare il sistema intoccabile si inventano situazioni inesistenti e verità precostruite da dare in pasto all’opinione pubblica; pur di allontanare l’attenzione dai sospettati “naturali” si inventano addirittura “I Figli del 89” un’associazione segreta di sovversivi come capro espiatorio, mettendo così i potenti e altolocati sospettati sono così in salvo!

Resta la Morte, unica verità possibile. Vice è in vacanza, una mattino è ancora a casa, giunge la donna che ogni mattina andava a rassettare quel poco che c’era da rassettare. Informa Vice che c’è stato un omicidio, gli dice che l’uomo ucciso ha «un  nome di paese della bassa Italia». «Rieti». «Si, si Rieti» si illuminò la donna. E pensò: questi qui le cose le sanno prima che accadano.

Vice esce di casa. Gli sparano. E’ tutto chiaro ora: Rieti era stato ucciso perché aveva parlato con lui. Cade, tenta di alzarsi, ricade. L’ultima vista si dissolse nei titoli dei giornali dell’indomani: I figli dell’ottantanove colpiscono ancora. Ucciso il funzionario di polizia che sagacemente li braccava.

 

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